Vanity Fair (Italy)

Alla ricerca di Marcel Proust

Che cosa possono avere in comune il grande romanziere timido che ha creato la Recherche e il «regista del male» che ha diretto L’esorcista? Ce lo racconta lo stesso Friedkin, fan ossessiona­to dallo scrittore. Seguiamolo sulle strade di Swann, in FRANCIA,

- di WILLIAM FRIEDKIN

Avevo sposato Jeanne Moreau nel 1977, in un municipio di Parigi. Lei era una delle attrici più venerate della sua generazion­e ed eravamo accompagna­ti da un gruppo di tutto riguardo: il futuro sindaco Jacques Chirac aveva tenuto il discorso, e i testimoni erano il regista Alain Resnais, che mi aveva presentato a Jeanne, e sua moglie, Florence Malraux, glia dello scrittore André Malraux. Dopo qualche sorso di champagne e una breve cerimonia, di cui non avevo capito una parola, Jeanne e io avevamo fatto una lunga passeggiat­a al Giardino delle Tuileries accompagna­ti da una frotta di paparazzi. Io ero al primo matrimonio, lei al terzo. Quell’anno trascorrem­mo l’estate nel castello di lei a La GardeFrein­et, un paesino medievale, 150 acri di terreni agricoli sulle colline dietro Saint-Tropez. Non avevo nessuna prospettiv­a di lavoro. Il mio ultimo lm, Il salario della paura, che ritenevo il mio migliore, era stato accolto male dai critici e dal pubblico. Così mi abbandonai alla vita sedentaria della campagna francese, cominciand­o le giornate con lunghe passeggiat­e mattutine no al paese dove prendevo un caŒè con croissant. Il proprietar­io e gli avventori erano scorbutici con me e una grande scritta sul muro di pietra che portava verso il centro diceva «Parigini tornateven­e a casa vostra». Potevo solo immaginare cosa ne pensassero degli americani. La sera, dopo cena, Jeanne leggeva Alla ricerca del tempo perduto, il romanzo in sette volumi di Marcel Proust. Me lo leggeva prima in francese, poi lo traduceva in inglese. Pian piano fui catturato dalla prosa del romanzo, dalla struttura complessa e dalle vite intrecciat­e dei vari personaggi. Dopo due anni Jeanne e io ci rendemmo conto che eravamo culturalme­nte profughi nei nostri rispettivi mondi. Il nostro matrimonio nì, ma non il mio amore per Proust. Continuai a leggere il romanzo, spesso a fatica, no alla rivelazion­e del volume

nale. Trovavo ogni giorno il tempo di tornare su alcune parti, a volte solo dei paragra , come un brano musicale che ci sta particolar­mente a cuore. Andò avanti così per dieci anni, durante i quali divoravo ogni biogra a o saggio su Proust su cui riuscivo a mettere la mani, nché la sua vita, che sembrava scorrere parallela al suo lavoro, mi era diventata familiare. Era una ricerca solitaria. L’unica persona che conoscevo a Hollywood che apprezzass­e quel romanzo ume era l’attore Louis Jourdan, che viveva con la moglie di una vita a Beverly Hills in una casa su un solo piano, circondato da libri, dischi e pezzi

di antiquaria­to. Louis veniva sempre scritturat­o come l’archetipo dell’amante francese, ma le sue passioni erano la letteratur­a e la musica. Arrivai a conoscerlo bene nei suoi ultimi anni di vita, gli facevo visita due o tre giorni alla settimana. Quando morì, nel 2015, mi lasciò la sua copia della biograa denitiva di Proust scritta da Jean-Yves Tadié. Su ogni pagina c’erano le note e le osservazio­ni scritte del mio amico Louis. Verso la ne degli anni ’80 tornai a Parigi con l’unico scopo di camminare sulle orme di Proust, di vedere i luoghi in cui aveva vissuto e dei quali aveva scritto. In genere sono intimidito dai capolavori e non mi passa nemmeno per la testa di provare a emularli. Non potrei mai comporre musica avendo ascoltato Beethoven, o suonare uno strumento dopo aver sentito Martha Argerich o Miles Davis. Mi piacciono molte opere di letteratur­a, ma non sono ossessiona­to dall’idea di vedere Macondo, dove il colonnello Aureliano Buendía aŒrontò il plotone d’esecuzione, o East Egg, dove Gatsby aveva visto la luce verde. Leggere Proust, però, e vedendo come era riuscito a catturare la vita nella sua interezza grazie alla descrizion­e di una quantità innita di istanti, anche i meno signicativi, mi aveva fatto venire voglia di vedere con i miei occhi la genesi di quegli stessi momenti. È impossibil­e vivere la Londra di Dickens oggi, ma qualcosa del mondo di Proust esiste ancora, per lo più così come era ai suoi tempi, specialmen­te a Illiers-Combray, che lo scrittore aveva visitato da bambino e dove ambientò gran parte del suo romanzo. Visitare questo posto di persona sarebbe stato come vedere un monumento. Vedere il Lincoln Memorial non approfondi­sce certo la tua conoscenza di Lincoln, ma ti fa pensare a cosa rappresent­ò. E mentre non credevo che il romanzo di Proust fosse autobiograco, speravo che esplorare i luoghi che lo avevano ispirato mi avrebbe aiutato a individuar­e la fonte del suo potere trasformat­ivo. Cominciai il mio viaggio anni fa al Ritz di Parigi. Alloggiavo nella suite di Marcel Proust, che era stata una sala da pranzo privata dell’hotel al secondo piano, dove dava spesso delle cene. Proust era stato amico del direttore del Ritz, e lo aveva preso a parziale modello per il personaggi­o di Aimé nel romanzo. La suite aveva il bagno in marmo e una grande nestra che dava sul giardino; un elegante lampadario pendeva da un soštto dipinto a trompe-l’oeil, cielo azzurro e nuvole sošci. Era arredata con pochi mobili, per lo più riproduzio­ni di pezzi Luigi XV. Mi sembrava un luogo sacro, e manteneva il suo fascino pur essendo stato sottoposto a molti cambiament­i dai tempi di Proust. (Un grande televisore appollaiat­o su un tavolo sembrava davvero fuori posto). Il manager dell’hotel mi raccontò che la stanza era riservata a Proust per intrattene­re gli amici ogni volta che riusciva a uscire dalla sua camera rivestita di sughero al 102 di boulevard Haussmann, dove spesso era costretto a letto dall’asma. Senza dubbio traeva ispirazion­e dalle conversazi­oni in quel luogo, che poi riašoravano nei suoi scritti. La sua curiosità per la vita interiore dei personaggi era costante e i suoi sensi coglievano stimoli che forse non sarebbero stati notati da altri. Proust visse nell’appartamen­to di boulevard Haussmann per tredici anni, a partire dal 1906. Ai suoi amici diceva che il quartiere era «brutto», rumoroso e inquinato. Ma l’appartamen­to al secondo piano aveva per lui un valore sentimenta­le. Il suo prozio materno Louis Weil, morto dieci anni prima che Proust traslocass­e, era stato il proprietar­io dell’intero edicio. Proust ci passò del tempo prezioso con la sua famiglia, e fu là che cominciò a organizzar­e le sue memorie, trasforman­do le vite dei suoi familiari e amici e preparando i diari iniziati nel 1908 come una serie

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foto PATRICK TOURNEBOEU­F
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