Questo albergo non è una casa
Centinaia di terremotati vivono da sfollati negli hotel della costa adriatica. Sperano ancora per poco. E intanto arrivano i turisti a divertirsi
Fermate, nun te azzarda’», dice alla cameriera sarda. La signora Anna intende di non azzardarsi a pulire camera sua, al massimo una mano a cambiare le lenzuola perché fa fatica ad alzare il materasso, ma non a fare la polvere, lavare il pavimento, né sgrassare il piccolo bagno. Non la si può privare dell’unica occupazione della giornata. «Si guri, signora, non tocco niente», risponde la cameriera che ogni giorno assiste alla stessa scena. Poi mi spiega che quasi nessuna delle donne che vive all’hotel Marconi di Grottammare (AP) vuole che le inservienti si dedichino alla pulizia delle camere. Dal 24 agosto 2016, giorno in cui Accumoli, il loro paese, è diventato l’epicentro del primo dei terremoti che hanno colpito il Centro Italia e che da solo ha fatto 298 vittime, gli alberghi sono diventati casa. Con le foto dei genitori sul comodino, le scatole delle scarpe accatastate vicino ai balconi, il pesce rosso in bagno, il castello di Barbie nell’angolo. Prendersi cura di quel luogo ricorda vagamente la vita di una volta, trascorsa in case vere, oggi diventate parte delle due milioni e centomila tonnellate di macerie da smaltire.
Prima di trasferirsi all’hotel Marconi, la comunità di Accumoli ha vissuto al Relax di San Benedetto del Tronto: da settembre 2016 a maggio 2017. Su 670 abitanti, quasi 300 hanno scelto di vivere in albergo tra la costa e l’entroterra, gli altri usufruiscono del Contributo di Autonoma Sistemazione con cui si pagano un affitto. Il sindaco Stefano Petrucci ha cercato di tenere la comunità unita: «Novanta di noi vivono nello stesso hotel. L’ho fatto per non separare bambini e anziani, perché stare vicini ci ha aiutato ad andare avanti». «Abitare in albergo è dicile, ma anche pensare di tornare ad Accumoli, in una casetta di quaranta metri quadrati, mi fa paura. Però mio marito e mia glia non vedono l’ora», dice Franca, 71 anni. «Temo che trovarci ogni giorno di fronte alla nostra tragedia renda più forte questa sensazione di distruzione e mancanza». Le casette destinate ad Accumoli sono duecento, le avevano promesse per aprile, ma come per tutti gli altri comuni di Abruzzo, Umbria, Lazio e Marche colpiti dal terremoto, la burocrazia ha reso i ritardi inniti. Il sindaco è convinto che saranno pronte entro ne luglio, ma quasi tutti mi dicono che se sarà settembre, per l’inizio della scuola, grideranno al miracolo. Su circa 9 mila sfollati – colpiti dalle scosse del 24 agosto, 26 e 30 ottobre e 30 gennaio – 6.700 hanno scelto di stare in albergo, gli altri si dividono tra container, roulotte e spazi comunali.
L’hotel Marconi è un colosso degli anni Settanta che affaccia sul lungomare di Grottammare. Nel periodo d’oro deve essere stato l’albergo di punta della città: «Ci veniva pure Raaella Carrà!», mi dice il proprietario. Oggi, la facciata ingrigita e gli arredamenti rimasti uguali lo rendono un luogo felliniano. È iniziata l’alta stagione. Nei corridoi si incontrano i vacanzieri venuti a godersi l’Adriatico che si fanno spazio tra i «vacanzieri forzati», come si deniscono gli accumolesi, che girano alla ricerca di qualcosa da fare. Le signore cuciono e fanno la maglia ai tavoli del bar, i bambini giocano e litigano per il pallone nella hall. Stanno quasi sempre tutti insieme perché «non riesco a rinchiudermi nei 15 metri quadrati della stanza», mi dice Ida, 47 anni, che no al 24 agosto lavorava al Comune di Amatrice. Le stanze sono piccole, soprattutto se si ha una famiglia. Ce ne sono certe dove accanto al letto matrimoniale c’è quello a castello e solo lo spazio per camminarci intorno. La giornata per alcuni, pochi, inizia alle 5.30, un caè veloce al bancone del bar, il sacchetto con i panini e via sul pullman direzione Accumoli e zone limitrofe. Sono i «fortunati», soprattutto uomini, che hanno ancora un lavoro e che fanno oltre 250 chilometri al giorno per poterlo mantenere. Per gli altri, la maggioranza, la sveglia suona più tardi. Lasciato il pigiama sotto il cuscino, vanno al ristorante dell’albergo a fare colazione. Ogni famiglia siede assonnata al proprio tavolo: «Caè, cappuccio, mi scalda il latte coi plasmon, gentilmente?». Quando la sala si svuota, un signore anziano si guarda intorno e si mette in tasca gli avanzi del buet: qualche fetta biscottata, le marmellatine. Le porterà in camera, forse per assicurarsi la merenda del pomeriggio. Pierluigi ha 39 anni, ed è solo. Mi dice che Ida, il marito e il glio lo hanno «accolto» nella loro famiglia: vuol dire che mangiano insieme e che, se ha bisogno di qualcosa, gli danno una mano. È un uomo socievole e mi racconta la sua storia. Come tutti quelli che lo fanno, inizia dalla scossa che gli ha cambiato la vita. Mi fa la conta di quante persone ha salvato – nove – e di quando si è messo a scavare e ha iniziato a trovare solo morti, e allora ha abbandonato il campo. «Prima lavoravo, giravo con la frutta. Sono dieci mesi che non faccio nulla: mi alzo, gironzolo, scambio quattro chiacchiere e aspetto che la giornata nisca». Si dimentica di dire che fuma una sigaretta dietro l’altra, in preda alla noia, come quasi tutti i suoi compaesani. «Ad aprile ho chiesto al Comune di Amatrice se potevo aiutare con lo smaltimento delle macerie, ma mi hanno risposto che devono rifare la gara di appalto. C’è chi
pensa che noi siamo “i fortunati” perché diamo l’impressione di essere in vacanza da dieci mesi, ma questo è un esilio forzato, di cile da sopportare». Le donne non lavorano, tranne qualche caso raro, come Monica, 50 anni, che ogni giorno va ad Amatrice. Fa in macchina circa 130 chilometri andata e 130 ritorno per arrivare puntuale al posto di lavoro. «Mia glia Natasha ha gli esami di terza media. Quest’anno ha frequentato la scuola di San Benedetto del Tronto, si è trovata bene, ma non è semplice per un’adolescente cambiare». Monica è stanca di non essere presente nella vita della sua unica glia: «Esco la mattina che lei dorme, rientro alle otto di sera, e sono così aaticata che crollo sul letto, senza Tv».
L’hotel Marconi ore ai suoi ospiti anche il servizio spiaggia, e alcuni dopo la colazione vanno a prendere il sole. Mentre spalma la crema sulle spalle del suo secondogenito di 10 anni, Cinzia, 42, si commuove parlando di Accumoli. «So che noi siamo fortunati. Abbiamo perso amici, parenti, ma siamo quelli vivi. Dovrei essere riconoscente, e lo sono, però non mi chiedano di essere felice. Facevo la casalinga, dedicavo le mie giornate alla cura della casa e dei gli. Vedere che anni del mio lavoro sono diventati polvere mi distrugge». Le domando perché vuole tornare ad Accumoli, dove non ci sarà più né la sua casa né il suo paese come lo conosceva lei. «Perché quando rivedo le mie montagne sto meglio: ci ha portato via tutto», il terremoto intende, «ma le montagne no». Interviene Francesco, che di anni ne ha 12 ed è un grande amico dei suoi gli: «Io pure voglio tornare. Del mare non me ne frega niente, amo i nostri monti. Se oggi fossi a casa sarei a fare l’orto col nonno, oppure a funghi». Cinzia già sta pensando a come rendere «sua» la casetta che le spetta, vuole colorare una parete di una tinta vivace, pensa sia un buon punto di partenza per tornare a essere felice. «Ho cercato di trasformare anche la stanzetta dell’albergo: a Natale ho messo un alberello vicino al letto dei ragazzi, ho attaccato alle nestre immagini natalizie. Ma non è bastato a farci sentire a casa. Abbiamo mangiato tutti insieme nel ristorante, ma siamo gente legata alle tradizioni, e qui è impossibile portarle avanti». A quasi tutte le signore manca cucinare. Michelina, 67 anni, mi dice che per lei il giovedì era il giorno degli gnocchi fatti in casa, domenica delle fettuccine. La signora Anna quando era all’hotel Relax ogni tanto andava in una stanza dove si poteva cucinare per i più piccoli, e faceva il sugo preferito del marito. «Al Marconi ci trattano bene. Il personale è disponibile, e lo chef è bravo. Ma vuole mettere la mia cucina?», dicono tutti. Gli albergatori devono assicurare la pensione completa per ogni ospite: «Lo Stato paga 40 euro iva inclusa al giorno a persona, e circa 20 per i bambini», mi spiegano in albergo.
Qui sono gentili, ma dopo dieci mesi di condivisione iniziamo a risentirne», mi dice Ida, a cena. «Non c’è privacy. Se marito e moglie litigano tutti lo sanno, e in queste condizioni si perde la pazienza molto più facilmente, anche tra gli ospiti. Uno dei grandi motivi di discussione sono le lavatrici. Ce ne sono poche e scoppiano polemiche su chi le usa troppo, o chi sceglie lavaggi più lunghi. Stupidate che diventano bombe». Ida mi racconta di quella notte e piange. È una delle poche di Amatrice, il comune che ha avuto più vittime. Mi parla del suo migliore amico, che aveva visto qualche ora prima, morto sotto le macerie. Le chiedo qual è il suo sogno ora che manca poco al ritorno a casa: «Non dormo da dieci mesi e non sogno più», mi dice, «voglio solo che mio glio si senta meglio. La scuola di San Benedetto ci ha fatto sentire parte della comunità, così come la squadra di calcio, e il gruppo di judo. Ma è stato un anno davvero di cile per lui, ha perso degli amici quella notte, e quando torniamo ad Amatrice non vuole scendere dalla macchina». Ida lo ha portato da uno psicologo, così come hanno fatto altre mamme di Accumoli. Raccontano che ad alcuni dei loro gli sono venuti tic nervosi: sbarrano gli occhi, aprono e chiudono la bocca. Una bambina passa dal riso euforico al pianto disperato. Dopo cena si incontrano nel piazzale davanti all’albergo, dove ci sono divanetti e giochi per bambini. A destra, lontano, c’è un gruppo di adolescenti con cui avevo parlato il pomeriggio in spiaggia. Anche loro hanno perso tanto, ma non l’entusiasmo. Deve essere quella sensazione di invincibilità che appartiene alla loro età, a salvarli. Mi hanno raccontato del sogno di diventare rapper, di fare l’università, di provare a vivere all’estero. Livia non vorrebbe tornare ad Accumoli «ma so che per i miei è importante, e per ora li seguo». L’unica volta che la conversazione si è inceppata è stata colpa mia: ho chiesto dei loro amici che non ci sono più. Si sono guardati negli occhi, come se avessero un codice da rispettare sull’argomento. Hanno bisbigliato qualcosa, e poi l’ennesima sigaretta.