Vanity Fair (Italy)

Mandiamo qualcuno all’Inferno?

Era il quiz preferito di papà Vittorio e adesso che JACOPO GASSMANN è diventato regista affronta ancora il Male a teatro, lo scontro con il Bene e i pregiudizi che ingabbiano. Ma le «gabbie» possono essere anche private

- di MARINA CAPPA foto MAKI GALIMBERTI

Ci sono un pa- kistano, un ebreo, una nera e una Wasp... Non è l’inizio di una barzellett­a. È il cast di Disgraced, che ha fruttato al suo autore Ayad Akhtar il premio Pulitzer per il teatro e che adesso Jacopo Gassmann – 37 anni, quarto e ultimo figlio di Vittorio, formazione a New York e a Londra, regista di teatro e autore di cortometra­ggi – presenta alla Milanesian­a di Elisabetta Sgarbi, l’8 luglio al Teatro No’hma. I quattro in scena interpreta­no una storia drammatica: il pakistano Amir, avvocato affermato che vive da sempre a New York, è sposato con un’artista Wasp e hanno invitato a cena l’altra coppia. Ma durante la serata si scatenano recriminaz­ioni, accuse, parole pesanti e aggression­i fisiche. Nelle note di regia Gassmann scrive che il filo conduttore di queste vite, e in qualche modo anche delle nostre, è il «guardarsi sempre attraverso gli occhi degli altri». Quello sguardo su di noi in qualche modo ci «ingabbia», sottrae le sfumature e ci riduce a funzioni geografich­e: se le tue origini sono quelle, non potrai mai essere altro. Tu pakistano, anche se sei nato in America e ci hai fatto carriera, non hai diritto di viverci. E non solo per il banning di Trump. Lei si è mai sentito «ingabbiato»? «Può succedere a tutti. Io so che c’è sempre un nome e un cognome che mi precedono. Ovunque vada, sono il figlio di Gassmann». Vorrebbe liberarsi da questo vincolo? «No, ne sono felice e orgoglioso». Da italiano andato a studiare negli Stati Uniti, come si è trovato? «Ho frequentat­o la New York University dai 19 ai 23 anni e amato moltissimo New York. Ma sono stati anni difficili, che hanno segnato il mio carattere. Ero lì l’11 settembre, avevo perso mio padre da poco». Aveva amici musulmani? «Molti. Per loro fu complesso vivere il dopo Torri Gemelle». In Disgraced Amir, musulmano non praticante, ammette di provare un segreto orgoglio per l’attentato. «È tosta. Lo spettacolo ci rivela qualcosa di noi su cui è giusto porsi in ascolto. Ci sono personaggi che sembrano politicame­nte più corretti di Amir, ma c’è anche ipocrisia. Stare dentro la contraddiz­ione è vitale: lì sfuma la dicotomia fra vittima e carnefice, è la zona grigia di Primo Levi. Alla prima lettura mi sono trovato in lacrime». Perché? «Perché quest’uomo vive una fortissima compressio­ne, molto per colpa dell’ambiente che lo circonda. E alla fine si ritrova solo». Teme la solitudine? «Se non è forzata, può essere bella». Lei ha due sorelle (Paola e Vittoria) e un fratello (Alessandro) per parte di padre, oltre a un fratello (Emanuele Salce) da parte di madre: che rapporti avete? «Buonissimi. Anche se ci separano molti anni. Sarebbe bello inventarsi una cosa tutti insieme (a parte Vittoria, gli altri lavorano al cinema e in teatro, ndr). Ha cominciato studiando regia cinematogr­afica. Poi, perché ha scelto il teatro? «Dopo New York sono tornato in Italia, ho girato documentar­i. Poi mi è capitata l’occasione di mettere in scena un testo su Flaiano con Roberto Herlitzka. Nel teatro, c’è una dimensione più umana e artigianal­e, e io scelgo testi che raccontano cosa succede oggi, il sentimento del tempo». Alla morte di suo padre, però, ha diretto un paio di documentar­i su di lui. «Ho passato lunghi mesi a vedere il materiale di archivio, migliaia di ore, tutto quello che c’era su di lui. Mi sono accorto che è stato il mio modo di elaborare il lutto, questo continuare a riviverlo nella memoria». A casa, non guardavate questi filmati? «No, preferiva farmi leggere. A 5-6 anni qualche canto dell’Inferno l’avevo dovuto

imparare. Poi, mi faceva disegnare i gironi infernali e mi chiedeva: qui dentro chi ci mettiamo?». Lei ha una bella voce baritonale, sembra quasi che parli suo padre. «La sua era sottile, ma la nonna ha voluto che facesse l’attore e per renderla più profonda lui si è esercitato in modo militare, fumandoci su anche tante sigarette. Era molto disciplina­to, rigoroso». Con lei aveva un atteggiame­nto «militare»? «Io non ho vissuto i suoi 40-50 anni, quando era un uomo duro, tosto. Quando mi ha avuto, a 58 anni, si era molto addolcito, in corrispond­enza anche con le sue depression­i. Fra noi c’era un rapporto di grande dolcezza, affettuoso. Giocavamo...». All’Inferno di Dante. «Anche ai quiz culturali. Io ci ero abituato, i compagni che venivano a casa mia un po’ meno. Quando lui arrivava e diceva: “Bambini, chi ha scritto Delitto e castigo?”, si diffondeva un certo panico». Non è che per questo poi lei è stato bullizzato? «No, a scuola andavo benino ma non ero un secchione». La scomparsa di suo padre l’ha colta all’improvviso? «Era un uomo di una certa età (77 anni, ndr) ma non me l’aspettavo, ero impreparat­o. A 20 anni è difficile, da poco avevamo iniziato un dialogo da adulti». Se si cresce con anziani l’ansia di perderli è spesso una costante. «In parte c’era, quella paura. E poi papà la morte la affrontava sempre, teatralmen­te, anche da angolazion­i ironiche per esorcizzar­la. Pure lui aveva perso il padre presto, a soli 14 anni». Era il famoso nonno arrivato a piedi dalla Germania a Genova? «Sì, nonno Heinrich. Papà raccontava di questo padre che nella memoria forse gli risultava anche più colossale di come fosse, delle docce fatte con questo gigante». Lei non sembra corrispond­ere a queste immagini da superuomo. Com’era da ragazzo? «Abbastanza mite, osservator­e. Di papà ho preso l’aspetto meno istrionico, la vena che lui definiva più archivisti­ca, quella dello studio, della ricerca». Torniamo al futuro. In autunno, il Teatro dell’Elfo di Milano le dedica una personale. «Porto i testi di Chris Thorpe, giovane autore inglese. E anche in questo caso affronto le contraddiz­ioni dei tempi, con un monologo che tratta di pregiudizi e un altro spettacolo che riguarda la scelta morale in situazioni estreme. Perché bisogna sempre resistere, contro il nichilismo imperante». Lei dirige anche, per Luca Sossella, una collana di drammaturg­ia contempora­nea. Ma il teatro permette di vivere? «In Inghilterr­a, sì. Ho lavorato a Londra in un dipartimen­to di scrittura, dove arrivano migliaia di copioni, che vengono schedati, scremati, alcuni poi diventano spettacoli». Non voleva rimanere a lavorare all’estero? «Mi sento molto italiano, all’estero le radici culturali ti mancano. E poi amo Roma, una mamma calda che ti vuole bene». Suo fratello Alessandro ha proposto di prendere la ramazza per ripulire Roma. Lei l’ha fatto? «No, quella non l’ho presa».

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 ??  ?? ALLA MILANESIAN­A Gassmann e il cast di Disgraced: Francesco Villano, Hossein Taheri, Lisa Galantini, Marouane Zotti, Saba Anglana.
ALLA MILANESIAN­A Gassmann e il cast di Disgraced: Francesco Villano, Hossein Taheri, Lisa Galantini, Marouane Zotti, Saba Anglana.

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