PER HAITI, CONTRO TUTTI
Prima il terremoto del 2010, poi il colera portato dai caschi blu. Dopo aver ottenuto scuse e risarcimenti dall’Onu, BEATRICE LINDSTROM, giovane avvocato di New York, lotta ancora
Nell’autunno del 2010, a pochi mesi dal terremoto che semina oltre 200 mila vittime e si lascia dietro 2 milioni di senzatetto, Haiti viene colpita da una nuova catastrofe: scoppia una devastante epidemia di colera. In poche settimane, si ammalano 800 mila persone e ne muoiono 10 mila: fino ad allora, l’ultimo caso di colera sull’isola risaliva a quasi 100 anni prima. Indagini successive confermano che l’infezione è stata trasmessa da caschi blu dell’Onu fatti arrivare dal Nepal, dove la malattia è endemica. L’Onu nega energicamente ogni colpa, ma non ha tenuto conto di Beatrice Lindstrom, una neolaureata in Legge della New York University che si trova ad Haiti quando scoppia l’epidemia. Sei anni dopo, la Lindstrom – divenuta nel frattempo un legale del minuscolo non profit Institute for Justice & Democracy in Haiti – si trova davanti ai giudici della seconda Corte di appello di New York per chiedere che l’Onu ammetta le proprie responsabilità. Cresciuta tra Corea del Sud e Svezia, minuta, l’avvocata sembra più giovane dei suoi 32 anni, e tra gli haitiani seduti in aula qualcuno chiede come mai a rappresentarli non sia stato assoldato un «vero» legale. «Immunità non significa impunità», attacca lei rivolgendosi alla difesa. Una precedente richiesta è stata rigettata da un giudice federale: l’Onu, infatti, è considerata esente da questo tipo di azione giudiziaria. Per l’organizzazione si tratta di una delle sfide legali più importanti affrontate nei suoi 70 anni di storia. Per la Lindstrom, invece, è il secondo caso in tribunale. Alla fine del procedimento, il pubblico si alza in piedi ad applaudirla. Ma i giudici rigettano il ricorso. Tuttavia l’interesse mediatico creatosi nel frattempo – oltre al rischio di finire davanti alla Corte suprema – spinge a fine 2016 l’allora segretario generale Ban Kimoon a scusarsi ufficialmente con Haiti e ad annunciare la creazione di un fondo di 400 milioni di dollari per risarcire i familiari delle vittime. Nei mesi successivi, quello della Lindstrom e della sua piccola non profit sembra il trionfo di Davide su Golia. Fino all’ammissione del nuovo segretario dell’Onu António Guterres, lo scorso 25 giugno, che nel fondo non ci sono soldi: solo 9 su 193 Paesi hanno versato la quota richiesta, per un totale di poco più di 9 milioni di dollari. L’Italia non è tra questi, ma un addetto stampa della nostra missione all’Onu non sembra avere una risposta precisa sul perché: «Se non abbiamo contribuito non è per un pregiudizio nei confronti dell’iniziativa». Riccardo Pavoni, giurista dell’Università di Siena che ha collaborato con la Lindstrom alla definizione della sua strategia legale, parla però di «un silenzio colpevole» da parte di tutti gli Stati membri dell’Onu, «un atteggiamento cinico motivato solamente dall’insostenibilità finanziaria di un risarcimento alle vittime del colera». La Lindstrom, dal canto suo, dice a questo punto di non potersi arrendere: «Per tanti, Haiti è un Paese lontano che non fa notizia, se però l’Onu, che dovrebbe difendere i diritti umani, è la prima a non rispettarli, tutti i cittadini del mondo dovrebbero preoccuparsi». Se la prende poi anche con Trump, che chiede ai partner internazionali di farsi carico delle proprie responsabilità, ma non versa un centesimo. Il motivo, dice, è evidente: «Il colera è una malattia dei poveri, si diffonde in presenza di scarse condizioni igienicosanitarie; quando tre anni fa è scoppiata l’epidemia di Ebola, una malattia che colpisce anche i ricchi, il congresso degli Stati Uniti ha stanziato più di 5 miliardi di dollari per prevenirla». Come se non bastasse, con l’ordine esecutivo sull’immigrazione firmato dal presidente americano mesi fa, migliaia di rifugiati negli Stati Uniti rischiano ora di essere rimpatriati ad Haiti, dove ancora oggi si registra un migliaio di nuovi casi di colera al mese. A volte, la Lindstrom dice di avere quasi voglia di prendere a pugni il muro: «Ci sono ancora morti, famiglie schiacciate dai debiti contratti per pagare il funerale dei propri cari, bambini che non possono andare a scuola perché i genitori non riescono a sostenere la spesa. Non posso vivere sapendo tutto quello che so e non fare nulla». Nel frattempo, l’Onu ha annunciato che il 15 ottobre prossimo chiuderà la missione ad Haiti, lasciando il Paese – questa volta per davvero – completamente a se stesso.