Vanity Fair (Italy)

L’AMICA immaginari­a

- di PAOLA JACOBBI foto PAOLO ROVERSI

Quando interpreta un film, che sia di fantascien­za (come quello in cui presto la vedremo) o uno degli horror che spesso le affidano, ANYA TAYLOR-JOY cerca di stringere un rapporto con il suo personaggi­o, come se esistesse davvero. Ma la donna che più di tutte la affascina è reale. E lei teme il giorno in cui la incontrerà

Da vicino, con i capelli tirati all’indietro, gli occhi grandi grandi e un vestito a fiori, Anya Taylor-Joy sembra un’attrice uscita da un musical degli anni ’50. No, un attimo: somiglia proprio a Judy Garland, diva di quei film sgargianti. Glielo dico, convinta che la mia osservazio­ne cadrà nel vuoto. Anya fa un saltino sul divano. «Davvero lei pensa che io somigli a Judy Garland? No, ma grazie, ma è un compliment­o pazzesco! Io adoro Judy Garland». Mi scusi, signorina Taylor-Joy, pensavo che lei neanche sapesse chi è Judy Garland. Invece, lo sa. E sa un mucchio di altre cose. Una millennial (ha 21 anni) anomala, con gusti all’antica. Eppure, sono soprattutt­o i suoi coetanei che potrebbero farne, a breve, una vera star. Già reginetta di film horror di successo, è da poco entrata nel cast di X-Men: The New Mutants, che uscirà nel 2018. Nel frattempo è stata coprotagon­ista di un successo di culto come Split di M. Night Shyamalan e di Barry, bel film di Netflix su Barack Obama ai tempi dell’università. Anya interpreta la ragazza del futuro presidente. La sensazione è che non si fermerà al cinema di genere. All’ultimo festival di Cannes ha ricevuto il Trophée Chopard, premio della maison di gioielli che raramente manca il bersaglio. Prima di Anya lo hanno vinto Diane Kruger, Marion Cotillard, Léa Seydoux… Nata a Miami, sesta figlia di una coppia molto mista (mamma un po’ africana, un po’ spagnola, un po’ inglese e padre mezzo scozzese e mezzo argentino), ha vissuto prima in Argentina e poi in Inghilterr­a. Ha debuttato con una particina in un film dal titolo Vampire Academy. «Un giorno di lavoro, mi sono divertita, ero gasatissim­a. Poi ho scoperto che la mia parte era stata tagliata. Ci sono rimasta un po’ male, ma nemmeno troppo perché per fortuna quando l’ho scoperto stavo già facendo un altro film». Era The Witch, un horror d’autore, premiato al Sundance festival. Ne ha girato un altro, da poco, Marrowbone. Ho visto il trailer e ho chiuso gli occhi. A lei piacciono questi film? «Massimo rispetto, ma non sono la mia prima scelta come spettatric­e. Preferisco interpreta­rli. Molto, molto più divertente». Nel trailer di Marrowbone la si sente cantare. Bella voce. «Canto come canterebbe il personaggi­o. In realtà, io sono più una cantante jazz». Sa anche suonare qualche strumento? «L’ukulele. L’ho scelto perché ho le mani molto piccole, vede?». Vedo anche che ha un libro nella borsa. «Sì, sto leggendo Clothes, Clothes, Clothes. Music, Music, Music. Boys, Boys, Boys.È il memoir di Viv Albertine, una cantante punk degli anni Ottanta, ha presente?». Ho presente sì. Ma perché è roba della mia epoca. Lei che c’entra? «Mi piacciono le autobiogra­fie dei musicisti, ho letto anche quella di Marianne Faithfull». Non è possibile che sia così «antica», alla sua età. «Se è per questo, mi interessa molto anche la poesia. Ne scrivo e ne leggo». Per esempio, chi? «Milk and Honey di Rupi Kaur, pakistana canadese, avrà 25 anni, un genio. Scrive, dipinge, fa performanc­e fortissime. Se non la conosce, gliela consiglio: merita». Lo sa che un’attrice così giovane e così studiosa è una rarità? «Sono cresciuta in mezzo agli adulti. Se mi confronto con quelli della mia generazion­e, mi vedo un po’ diversa. Tipo che non sono brava con i computer, non mi interessan­o». Ma su Instagram c’è. «Sì. Non ho tantissimi follower (263 mila, ndr), rispetto ad altre attrici ben più popolari. È una cosa carina, per essere al corrente di quello che fanno i miei amici. Ma io sono molto meglio offline. Sono una che deve guardare in faccia le persone, capisce?». Se non avesse fatto l’attrice? «Non saprei. Ho sempre voluto recitare, anche se in famiglia erano perplessi. Sono molto felice, adesso, quando posso invitare su un set qualcuno dei miei. Così vedono in che cosa consiste il mio lavoro». E in che cosa consiste, se lo dovesse spiegare a un marziano? «Per me interpreta­re un personaggi­o significa entrare in contatto con una persona che, anche se non esiste, diventa come un’amica. Infatti, quando si va a fare un provino è meglio non affezionar­si troppo all’idea: se poi non ti prendono, ci resti di stucco. Trovare equilibrio tra passione e il giusto distacco per non rimanerci male è fondamenta­le». Che cosa la mette a disagio? «La solitudine. E quando ti capita un film dopo l’altro, come mi è successo negli ultimi tre anni, si finisce con il vivere in albergo e a volte è davvero un po’ triste». Chi le piace, chi le piacerebbe diventare? «La mia attrice preferita è Tilda Swinton: coraggiosa, anticonven­zionale, unica». L’ha mai conosciuta? «No. E temo quel momento: se Tilda ha letto le cose che dico di lei in tutte le interviste, penserà che sono una stalker e mi caccerà via». So che dopo Split ha in programma di lavorare ancora con Shyamalan. «Sì, per fortuna. È il mio mentore, una persona fuori dal comune. Andiamo d’accordo. A volte ho la sensazione che condividia­mo lo stesso spazio mentale». Che paura. «Che cosa le fa paura?». L’idea di condivider­e lo spazio mentale del regista del Sesto senso. «Volevo dire che siamo molto in sintonia». Ah, credevo gli leggesse nel pensiero! «No, no. La mia testa è già abbastanza rumorosa per conto suo, non ho bisogno di pensieri altrui».

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