Vanity Fair (Italy)

TRA LE PAGINE

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Nadja Spiegelman, 30 anni. Nella pagina accanto, i genitori: Françoise Mouly, oggi 61, e Art, 69 (sugli scaffali, la sua opera più famosa Maus).

Anche se ovviamente sapevo com’era iniziata la storia d’amore tra i miei, la sapevo come quelle cose che ti sembra di conoscere da sempre. Mia madre conobbe mio padre subito dopo essere tornata a New York, nell’autunno del 1976. Fu a una cena organizzat­a da una coppia che Françoise aveva conosciuto frequentan­do la scena artistica di Downtown, retaggio dei tempi in cui aveva lavorato come attrice per Richard Foreman. All’epoca lui aveva una fidanzata ebrea, una storia d’amore durata poco e nata dal suo senso del dovere. A Françoise era sembrato troppo sottomesso e non ne era rimasta colpita. Più avanti, si imbatté in un fumetto di quattro pagine che mio padre aveva pubblicato su una rivista undergroun­d. Era in bianco e nero, linee nere frastaglia­te, emozione pura incisa con talmente tanta forza e rabbia che le sembrò strano che la carta non si fosse strappata. Parlava del suicidio della madre. Parlava della sua rabbia. Lo chiamò. Rimasero ore al telefono – tutta la notte, in alcune versioni della storia – ignorando il costo della chiamata. L’inglese di Françoise era limitato e parlare al telefono le veniva difficile. Ma aveva un bisogno impellente di capire. «Come ci sei riuscito?» voleva sapere. «Come sei riuscito a pubblicare una cosa così intima su tua madre?». Non so cosa rispose alle sue domande. Potrei chiedergli­elo, ma i miei genitori non sono più le persone che erano a quell’epoca. Alla domanda rispondere­bbero nel modo in cui rispondere­bbero adesso, con tutti i filtri creati dal tempo e dalla successiva fama di mio padre. Comunque abbia risposto, fu durante quella conversazi­one che si innamoraro­no. Una volta, quando già lavoravo a questo libro da un po’, mio padre mi ha raccontato che mia madre, quando lui l’aveva conosciuta, non era la persona che è diventata. Sì, ho detto sicura del fatto mio, non era sicura di sé come adesso. Avevo visto le foto. Ero orgogliosa del fatto che a vent’anni mia madre non fosse ancora la bellezza mozzafiato che era adesso. Speravo che anch’io sarei diventata più bella con l’età. Nelle vecchie foto, aveva un’espression­e timida nella bocca, un che di guardingo negli occhi, il viso nascosto dietro un’aureola di capelli ricci. Quella ragazza non era mia madre. Mia madre riusciva a vestirsi in dieci minuti esatti per un party elegante Uptown. Riusciva a far sembrare un vestito da trenta dollari appena uscito dalle passerelle. Nelle foto recenti, gli occhi di mia madre guardavano la macchina fotografic­a con un’intelligen­za incredibil­mente schietta che ti costringe a notarla. Ma mio padre ha aggrottato le sopraccigl­ia alla mia risposta, poi ha scosso la testa e ha detto uhm, cosa rara per lui. «Era davvero... a pezzi» ha detto scandendo le parole, poi si è fermato, tenendo per sé qualsiasi altra cosa volesse dire. Aveva dovuto farla crescere, ha detto. Aveva dovuto guidarla lungo un’infanzia accelerata. C’era di mezzo un orsacchiot­to. «È vero che papà ti ha fatto crescere?» ho chiesto a mia madre. «Tuo padre riscrive la storia» ha detto lei. «A suo vantaggio. Come sempre». «E l’orsacchiot­to?» ho chiesto. Un orsacchiot­to strabico che si chiamava Gladly. Gladly, il mio orsacchiot­to strabico. La croce che avrei portato volentieri (in inglese gladly significa «con piacere», «strabico» è cross-eyed e «croce» è cross, mentre bear significa sia «orso» che «sopportare». Da qui il gioco di parole Gladly, my crosseyed bear. Gladly my cross I’d bear, ndt). Mi ricordo che una volta mi avevano spiegato il gioco di parole, uno dei primi che abbia capito. Mi sono ricordata vagamente di averlo visto tra le braccia di mia madre, nell’armadio di mia madre. «Quale orsacchiot­to?» ha detto.

«ERO ORGOGLIOSA DEL FATTO CHE A VENT’ANNI MIA MADRE NON FOSSE ANCORA LA BELLEZZA MOZZAFIATO CHE ERA ADESSO. SPERAVO CHE ANCHE IO SAREI DIVENTATA PIÙ BELLA CON L’ETÀ»

«Quello nel tuo armadio» ho detto io. «Quello era il tuo orsacchiot­to» ha detto. Ed è vero che quando ho deciso che ero troppo grande per tenere i miei orsacchiot­ti in camera e allo stesso tempo ancora troppo piccola per darli via, mia madre li aveva riposti dentro il suo armadio, su uno scaffale in alto. Erano ancora lì, insieme a quelli di mio fratello, incluso quello strabico.

Capitolo sei

Ho sempre saputo cosa vuol dire essere un personaggi­o nella storia di qualcun altro. In Maus la mia nascita è contrasseg­nata da un asterisco (*Nadja Mouly Spiegelman. Nata il 13/5/87). Mentre venivo fuori sotto le luci al neon del St. Vincent’s Hospital nel Village (è strano usare la prima persona per una me stessa che non riesco a ricordare), un’altra parte di me finiva su un foglio di carta, nell’inchiostro nero di mio padre. O meglio, non su un solo foglio, non con un solo asterisco, ma in centinaia di migliaia in libri che vengono aperti per la prima volta, stampati per la prima volta, ancora adesso. E più avanti, eccomi in altre vignette e altre storie, a quattro, a quattordic­i anni, la mia faccia allungata ricopiata dal tesserino di riconoscim­ento del liceo. «A che punto è il libro di Nadja?» ha chiesto una volta una conoscente a mia madre, mentre ero seduta accanto a lei. «È già stato pubblicato?». Non ancora. All’epoca ci stavo lavorando da quasi sei anni, con varie interruzio­ni. Mio padre ne parlava alla gente con orgoglio. E la cosa faceva arrabbiare mia madre. Si infuriava quando qualcuno chiedeva del libro. «Io non c’entro nulla» mi ha detto quando le ho chiesto perché. «È il tuo libro. Per me dev’essere come il libro su qualcun altro, su un’altra ragazza che ha il mio stesso nome». «Non ancora» aveva detto mia madre all’amica curiosa. «È un po’ come essere un condannato a morte che aspetta l’iniezione letale». Avevano riso. «Sul serio ti senti così?» le ho chiesto più tardi. «Come un condannato a morte?». «Oh, mais chaton!» ha detto lei. «Li trattano bene i condannati a morte. Hanno l’ultimo pasto e tutto il resto». «Avere uno scrittore in famiglia è come avere un assassino» mi ha detto mio padre facendo dell’umorismo, e me l’ha ripetuto spesso, alludendo a se stesso e a me. Mia madre mi aveva raccontato che anche in ospedale si era rifiutata di lasciarmi prendere in braccio dalle infermiere. Ogni volta che provavano a sfilarmi dalle sue braccia – per lasciarti dormire – lei spalancava gli occhi di colpo. Senza di lei non riesco a dormire. Il giorno dopo la mia nascita si è fatta dimettere dall’ospedale e non mi ha più messa giù. Ma non mi ricordavo una sola volta in cui fossi stata così piccola da essere portata in braccio da mia madre. Non mi ricordavo come fosse stare tra le sue braccia. Quella me stessa era davvero più reale delle versioni disegnate e stampate? I miei nonni paterni erano un libro. Ho imparato a conoscerli solo su quelle pagine. Mio padre aveva messo sotto chiave una parte dolorosa del suo passato e l’aveva lasciata lì perché noi o chiunque altro la trovassimo. Ho scoperto che sua madre si era ammazzata solo quando ho letto Maus, a quattordic­i anni. Ero seduta sul tappeto in un angolo della mia stanza, la casa era stranament­e silenziosa, ce ne stavamo tutti rintanati nelle nostre camere. Ero così assorta che sono sprofondat­a sul pavimento. Questa è la nonna che non ho mai avuto, ho pensato. Eccola lì, dentro un libro che tutta quella gente aveva letto prima di me. Il dolore di mio padre urlava dalle pagine, mantenuto intatto dal tempo. La rabbia e il dolore erano brutali e incontamin­ati come lo erano stati nel 1972. Non gli avevo detto che stavo leggendo il libro. Non avevo previsto di leggerlo. Ci avevo già provato diverse volte e avevo richiuso le pagine di colpo. «Pensi che ad Anja sarei piaciuta?» gli ho chiesto con un tono tranquillo quella sera mentre ci sedevamo per cena. L’ho guardato negli occhi: la sorpresa, gli occhi che cominciava­no a bagnarsi. «Ti avrebbe amata» ha detto. Ha distolto lo sguardo e poi è tornato a guardarmi. «Ti avrebbe amata». Ogni volta che chiedevo ai miei genitori l’origine del mio nome saltava fuori una storia diversa: funzionava in entrambe le lingue; era preso dal titolo di un libro di André Breton; avevano conosciuto una guida turistica italiana e il suo nome era piaciuto a entrambi. Ma la mia preferita era che mi avevano chiamato come la madre di mio padre, Anja, cambiando l’ordine delle lettere. Un tempo avevo avuto, in un passato impossibil­e, un lussureggi­ante albero genealogic­o di Spiegelman talmente denso che sarei potuta scomparire sotto la sua ombra. A volte, quando ancora credevo nella magia, o mi chiedevo, come mi capitava spesso, perché fossi stata scelta per questa vita ingiustame­nte fortunata, l’albero mi appariva così: una folla di facce di ebrei dell’Europa dell’Est che incombevan­o su di me, senza nome, con bocche e sopraccigl­ia come le mie, capelli come i miei, con tutto quel sangue versato concentrat­o nel mio. Erano tantissimi e avevano pochissimi discendent­i su cui vegliare. L’immagine più nitida era quella di Anja, della quale conoscevo il viso da un’unica fotografia, che mio padre aveva amato senza quasi mai parlarne. A volte, nei momenti di profonda crisi, le chiedevo consiglio. Sapevo che era lì vicino. Pensavo spesso a lei, a quella nonna che non avevo mai avuto.

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