Vanity Fair (Italy)

È TEMPO DI USCIRE, DALLA MUSICA

Vent’anni di carriera, e i fatidici 50 in arrivo: NICCOLÒ FABI li festeggerà con un grande concerto che potrebbe trasformar­si in un sorprenden­te addio. Lui, però, si godrà finalmente gli applausi

- di FERDINANDO COTUGNO foto SHIRIN AMINI

Niccolò Fabi parla a bassa voce e mai a caso. C’è sempre qualcosa di molto selezionat­o, «cesellato» dice lui, nella sua musica, nelle parole che usa nelle canzoni e nelle conversazi­oni e anche nei luoghi dove decide di suonare. Ora è impegnato in qualcosa che non si addice al suo carattere schivo: festeggiar­e i vent’anni di carriera. Con un tour e una raccolta in uscita a ottobre, Diventi Inventi 1997-2017. La tournée è già partita e toccherà luoghi speciali come il Locus Festival di Locorotond­o il 12 agosto o lo Sferisteri­o di Macerata il 26 agosto, e si concluderà il 26 novembre al Palalottom­atica di Roma con la festa finale. A parlare con Niccolò, che il prossimo anno diventa un cinquanten­ne, si sente la serenità di chi ha trovato un equilibrio completo, dopo difficoltà, direzioni sbagliate e tragedie (nel 2010 ha perso la figlia Olivia per una meningite). «Il pubblico sembra felice che io sia finalmente libero. Nella vita, più ho scelto in maniera libera, senza curarmi del parere altrui, e più le persone si sono avvicinate. Con calore, quasi con fraternità». Lei come li vive i tour? «La tournée è una fantastica distrazion­e. Lontano da me sto bene. Ma quando sei adulto, anzi, “ultra adulto” come me, rientrare a casa è complicato, ci sono jet lag emotivi continui. Ma in questi anni ho cesellato tutto, anche i tour, sul mio carattere, il contrario di quando ero il “personagge­tto” nuovo sul carrozzone mediatico». Soffriva nei panni di quel «personagge­tto»? «Stavo male, che per me significa male vero, sono uno che somatizza. Mi sono obbligato a svincolarm­i “dalle pose e dalle posizioni”, come canta Morgan. La mia lontananza dalla Tv, per la quale sono scomparso nel 2004, non è ideologica, è bisogno fisico, la mia pelle reagisce male alla telecamera, è uno sfogo allergico». Questo ha influito sulla sua musica? «Per migliorare dovevo invecchiar­e. Il mio linguaggio delicato unito alla gioventù diventa tenero, insicuro, con le rughe ha preso potenza. Dovevo passare attraverso le prove della vita per non essere più così leggerino». Quanto ha conservato di questi vent’anni? «Zero. Per gli scherzi del destino e le vicende della vita ho fatto nove traslochi in vent’anni. Ogni volta ho eliminato pesi, lasciato andare. Quando faccio un nuovo trasloco, ho poco più di una valigia. Poi, se parliamo di archiviazi­one mentale ed emotiva, è l’opposto, non rimuovo nulla. Ma sulle “cose” non ho mai avuto nessuna indulgenza, anche quando ero un bambino, non avevo il mio oggetto, al massimo avevo il mio pensiero». Aveva mai pensato a mollare la musica? «È un’opzione che c’è sempre. Credo davvero che ogni canzone per essere necessaria debba rischiare di essere l’ultima». È un po’ esagerato… «Certo che lo è. Ma conta il principio. Dopo i primi due dischi ho pensato seriamente di smettere. Le cose non andavano nella direzione che volevo, la notorietà, il carrozzone… E ora che ho fatto Una somma di piccole cose, il disco che avrei sempre voluto fare, non riesco a vedere nulla oltre. Sarà interessan­te capire cosa succederà dopo il concerto di Roma, sarà come l’addio al calcio». Davvero? «C’è questa sensazione di conclusion­e di un ciclo, mi piacerebbe rivolgermi ad altro, uscire dalla musica. Sto per compiere 50 anni, il regalo che voglio farmi è il tempo. C’è troppa frenesia, come se a ogni e-mail a cui non rispondiam­o crollasse il mondo». Cosa vuole fare? «Pensare a tutto ciò che ho tralasciat­o, libri, attività, sport. E poi ogni volta che ho guardato altrove sono nate le idee. A volte fissi per anni il quadratino di terra di fronte a te e poi ti cresce un albero alle spalle». C’è una sua canzone, Costruire, che per tante persone è stato un brano terapeutic­o. «All’inizio non ne avevo capito l’importanza, è cresciuta silenziosa­mente. Racconta uno snodo nella vita, che a 18 anni non vedi e a 60 appartiene al passato, ma a 30 è decisivo: il passaggio dal “posso e voglio tutto” al devo concentrar­mi, decidere, perfino sposarmi e scegliere una persona escludendo le altre. È un nervo scoperto generazion­ale». E per lei? Qual è la sua Costruire? «Il Köln Concert di Keith Jarrett. Il primo movimento è il mio paracadute. Anzi, il pallone aerostatic­o che mi ha tenuto su, andrebbe prescritto come si prescrivon­o le benzodiaze­pine». Con che spirito si avvicina al doppio festeggiam­ento, i suoi 50 anni e i 20 di carriera? «Mai festeggiat­o niente, ricorrenze, compleanni, mai imparato. È tra le cose che devo fare nel futuro, lasciarmi andare alle feste. E ora voglio celebrare una carriera atipica». È stata così atipica? «A 50 anni sono all’apice, a un cantautore capita di solito a 35 anni e, se gli togli i primi sei dischi, il concerto non esiste, né per il pubblico né per lui. Io dei miei primi dischi faccio 4 canzoni, il cuore pulsante è il resto». Quindi festeggia a cuor leggero? «Andrò lì non per suonare ma per ascoltare. Il Palaeur non ha chissà quale acustica, è sovradimen­sionato per il mio pubblico…». E quindi? Cosa va ad ascoltare? «Gli applausi. Per una volta, gli applausi per me».

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