Il giorno di San Donato
Il sette agosto di ogni anno partivamo per Castel Del Monte la mattina presto, con l’aria ancora fresca e il baccano degli uccelli intorno alle case del nostro piccolo borgo. Andavamo per la festività di San Donato martire, un santo molto venerato (e bestemmiato) in Abruzzo. Protegge dall’epilessia, soprannominata in dialetto «male di San Donato», appunto. Nessuno avrebbe saputo pronunciare la parola in italiano. Dovevamo percorrere una trentina di chilometri, oltrepassando il confine tra le province di Teramo e L’Aquila. Era per noi l’unico viaggio, la sola vacanza, e durava quel giorno, fino a sera. La strada ce l’avevamo. Il sindaco democristiano di Arsita si era ricordato degli elettori di quella remota contrada e aveva mandato le ruspe fin lassù. Il sentiero da e per il borgo si era allargato a spese del bosco. Quell’anno, il 1970, c’era anche la macchina. Mio padre non avrebbe dovuto pagare qualcuno del paese che ci portasse. Con l’aiuto dei fratelli emigrati in Svizzera si era comprato una Fiat 850 bianca che era tutto il suo orgoglio. Lo sorprendevo ogni tanto a rimirarsela al centro dell’aia, tra le galline che razzolavano intorno. Scacciava con una pedata qualcuna che si avvicinava troppo. Una volta diede ordine a mia madre di tirare il collo a una che aveva trovato accoccolata sul cofano. Era bella la 850, più grande della 500 e della 600 che avevano i vicini, li guardavamo con sufficienza quando montavano su quelle utilitarie.
La mattina del sette mio padre governò in anticipo le mucche alloggiate al piano terra di casa e cominciò a trafficare intorno alla macchina. Controllava il livello dell’olio con l’apposita asticella, come aveva visto fare al benzinaio. L’olio era a posto. Svitò poi il tappo del radiatore e notò l’acqua un po’ diminuita, ne aggiunse attingendola dal pozzo. Mia madre intanto già aveva tolto le pagnotte dalla bocca del forno a legna e le avvolgeva in vecchie tovaglie perché raffreddassero piano piano. Una l’affettò subito, ci serviva per i panini da portarci in gita. Alcuni li imbottimmo con le salsicce di produzione propria e altri con pipindune e ove, peperoni fritti con uova strapazzate. Quando tutto fu pronto, mio padre ci chiamò con un fischio imperioso. Sul sedile posteriore salimmo in tre bambini, io e i figli degli zii emigrati. Davanti mia madre, sulle gambe la cesta delle provviste e la sua unica borsetta. Partimmo litigando, lì dietro, nessuno dei tre voleva stare in mezzo. Era una posizione scomoda, alle curve non ti potevi reggere da nessuna parte. E ce n’erano sulla nostra strada di curve, tornanti, salite ripide alternate a improvvise discese. Mio padre ci zittì con la
Era solo l’inizio dei fuochi d’artificio. Ne avevo paura ogni anno, mi tappai le orecchie. Mi sembrava la fine del mondo
minaccia di lasciarci a piedi, continuammo a scambiarci pizzicotti e gomitate in silenzio. Intanto ci stavo io, in mezzo. Così, quando Nicola vomitò senza preavviso il latte della colazione, non riuscii a salvare il vestito a fiori che la nonna mi aveva comprato ad Arsita alla fiera di San Vincenzo. Non si salvarono nemmeno il sedile della macchina e il tappetino. Scendemmo tutti. Io piangevo, mio padre bestemmiava tutti i santi, compreso «sant Dunat chi è uje (oggi)».
Mia madre cercò di ripulire il possibile usando l’acqua della bottiglia che teneva nella cesta. Consolava anche il mortificato Nicola. Ripartimmo, con lei seduta dietro e lui davanti, per sicurezza. Nessuno parlava, la puzza di acido che ristagnava nell’abitacolo malgrado i finestrini aperti ci toglieva il respiro. A Rigopiano ci inoltrammo nell’ombra densa e fredda della faggeta. Mio padre sembrava di nuovo nervoso, serrava le mascelle e i muscoli della faccia gli pulsavano sotto la pelle sbarbata da poco. «Mo che succede?», domandammo in coro quando frenò di botto e spense il motore. Altri santi in risposta. Si era accesa la spia che segnalava una temperatura troppo alta dell’acqua nel radiatore. Ci ordinò di restare fermi e scese solo lui a vedere. Aprì il cofano e svitò il tappo, come aveva fatto nell’aia. Sentimmo il gorgogliare inconfondibile di un liquido che bolliva. La bottiglia era vuota, mia madre l’aveva usata per lavare via il vomito. «Una e basta ne porti?», le chiese lui furibondo. Una e basta. Allora lo vedemmo avviarsi lungo la salita scuotendo la testa, le orecchie fumanti di rabbia. Insulti irripetibili contro il concessionario che gli aveva venduto la 850. C’era una fontana a un paio di chilometri, arrivò lì a riempire la bottiglia e tornò con un tempo da maratoneta. Coprimmo il resto della distanza a tappe, fermandoci a ogni fontana a rifornirci di acqua fresca per il radiatore. Una sosta non necessaria a Vado di Sole, per ammirare la vastità erbosa dell’altopiano di Campo Imperatore. Ci mangiammo i panini, con un appetito lupesco. «È l’aria della montagna», disse mio padre, contemplativo. Arrivammo a destinazione quasi a mezzogiorno, ci accodammo alla lunga fila di macchine parcheggiate all’ingresso del paese. «Non si compra niente», ci ammonì mia madre prima di lasciarci scendere.
Dalla piazza centrale musica, voci, un odore di zucchero caramellato, doveva essere il croccante di mandorle in vendita alle bancarelle di dolciumi. Noi invece puzzavamo ancora un po’ di acido, ma avevamo di bello quelle gote rosse dei bambini di campagna. Alle dodici in punto un colpo assordante moltiplicato dall’eco sembrò scuotere anche l’asfalto sotto i nostri piedi. Era solo l’inizio dei fuochi d’artificio. Ne avevo paura ogni anno, mi tappai le orecchie stringendo il braccio di mia madre. Mi sembrava la fine del mondo di cui tanto parlavano i nostri parenti testimoni di Geova. Tutta la catena delle montagne intorno a noi pareva in bilico sull’orlo del disastro. La visita in chiesa era obbligatoria, come la preghiera inginocchiati davanti alla statua del Santo con tutte le sue dorature. Prima dovevamo chiedergli perdono per le nostre malefatte, raccomandava mamma, e poi potevamo esprimere un desiderio da esaudire, sempre sottovoce. Io non sapevo mai cosa dirgli.
All’uscita il sole abbagliava, non abbastanza da impedirci la vista di tutte quelle meraviglie esposte sulle bancarelle. Giocattoli di mille colori, girandole di plastica accelerate dal vento, bambole, la mia passione. A quell’ora mio padre ci comprava i panini con la porchetta, uno a testa. Volevo rinunciarci in cambio di una pupa, come la chiamava lui. In fondo era anche il mio onomastico, in mancanza di una Santa Donatella era San Donato il mio protettore. Però in campagna il compleanno era poco riconosciuto e l’onomastico per niente, non c’era nemmeno la parola in dialetto. Avevo appreso a scuola di questa ricorrenza, ma restava un argomento debole per convincere i miei genitori a farmi un regalo. Si saranno stufati della lagna, alla fine hanno comprato una bambola per me e una palla per i due maschi. Siamo ripartiti a metà pomeriggio, mio padre era preoccupato per il radiatore. «Ma stasera in piazza ci sono i cantanti!», ho protestato inutilmente. Per consolarci ci ha preso pure le arachidi tostate, che chiamavamo noccioline americane. Ci siamo riforniti di acqua. Sull’altopiano del ritorno l’erba era bionda sotto il sole calante, le greggi numerose di pecore non ci impressionavano, le avevamo anche noi, ma di meno. I cavalli liberi al pascolo invece li trovavo superbi in confronto al nostro vecchio mulo. Di nuovo attraverso la faggeta, con la strada che sembrava richiudersi alle nostre spalle. Mia madre aveva ripreso il suo posto davanti. Ci siamo addormentati, ciondolando l’uno sull’altro. Era stata comunque una giornata memorabile. Avevo otto anni.