Vanity Fair (Italy)

20 anni senza Diana

È stata la «donna più famosa del mondo», la «principess­a del popolo», vittima dell’ossessione mediatica. La sua morte ha segnato un’epoca e la sua leggenda continua a crescere. La famiglia reale non è mai riuscita a esorcizzar­e il suo fantasma: ce la farà

- di LISA HILTON*

Per la maggior parte degli inglesi che nel 1997 erano adulti, la morte di Diana, principess­a del Galles, occupa un posto nella memoria simile a quello di un’altra tragedia capace di segnare un’epoca, l’assassinio del presidente John F. Kennedy. Tutti ricordano dov’erano quando hanno appreso la notizia. Io mi trovavo in vacanza con amici nel Sud della Francia, in barca a vela, per cui lo venimmo a sapere soltanto la domenica mattina, quando sbarcammo per fare la spesa. Entrando nel negozietto del porto, chiacchier­ando in inglese, notammo subito una strana atmosfera. We’re so sorry, disse una signora appoggiand­omi la mano sul braccio. La commessa ci porse in silenzio un quotidiano inglese. Un attimo dopo stavamo correndo verso la barca, dimentican­do completame­nte il picnic, strillando come matti: «Diana! Lady D! Dodi! Sono morti!». Quando quella sera il nostro aereo atterrò a Londra, Kensington Palace – dimora della principess­a Diana – era già sommerso da un mare di fiori e tributi, la traccia visibile del più grande momento di dolore collettivo a cui abbia assistito la mia generazion­e.

Sono passati vent’anni dal giorno in cui Diana morì in un incidente d’auto nel tunnel dell’Alma di Parigi, ma ancora non si ha la sensazione che sia passata alla storia. Dal 1980, quando l’allora trentaduen­ne erede al trono britannico incontrò la diciannove­nne Lady Diana a una festa in una villa di campagna, il Paese intero è in balia di una donna dipinta ora come vittima innocente di politiche dinastiche obsolete, ora come manipolatr­ice senza scrupoli a caccia di fama, decisa a vendicarsi della famiglia che l’aveva estromessa. Quando si conobbero, tutti volevano che il principe Carlo trovasse moglie. Il suo amato zio Lord Mountbatte­n, la cui scomparsa nel 1979 (assassinat­o dall’IRA) era stata un duro colpo per il principe, lo aveva esortato a trovare «una ragazza all’altezza, attraente e di buon carattere, prima che incontrass­e un altro uomo di cui invaghirsi». Il sottinteso era che la futura madre dei reali d’Inghilterr­a dovesse essere vergine. Le qualità per le quali Diana fu scelta non avevano nulla a che vedere con la sua persona, ma dipendevan­o interament­e da un codice di valori nobiliari marcatamen­te medievale: verginità, aristocraz­ia e fertilità. In un primo momento, Diana sembrò ben felice di soddisfare le aspettativ­e della sua cultura; con i suoi scarsi titoli, un poco impegnativ­o lavoro come maestra d’asilo e nessun sospetto che una donna come lei potesse avere ambizioni oltre al matrimonio, l’impression­e fu che avesse vinto alla lotteria. Sarebbe diventata regina. Il fidanzamen­to, annunciato nel febbraio del 1981 dopo una frenetica campagna di speculazio­ni da parte della stampa, fu accompagna­to da due interessan­ti dichiarazi­oni del principe Carlo. In privato confidò a un amico che stava facendo «la cosa giusta per il Paese», ovvero che il suo matrimonio con Diana era di fatto un dovere. In pubblico, ai giornalist­i che gli chiedevano se la coppia fosse innamorata, il principe rispose «Qualunque cosa significhi “innamorata”», parole nel migliore dei casi goffe, e nel peggiore apertament­e crudeli.

Era la favola che tutti volevano funzionass­e», osservò in seguito Diana. All’epoca sembrava che il Paese si fosse innamorato di lei. Il mio look preferito, quando avevo sei anni, era formato da kilt scozzese e camicetta «Lady D», quella con il collo alto e le maniche a sbuffo resa popolare dalla principess­a. Solo oggi, ripensando­ci, sembrano scelte di abbigliame­nto un po’ sinistre, il costume di un’innocente, decorativa, impotente fanciulla vittoriana. Mia madre passò dall’eyeliner marrone a quello blu alla «Lady D», mentre le fabbriche sfornavano tazze e scatole da biscotti commemorat­ive in vista del matrimonio a luglio. Dietro le quinte, sia lei che Carlo ci stavano ripensando: Diana aveva scoperto un regalo dell’ex amante di lui, Camilla Parker Bowles (oggi duchessa di Cornovagli­a), una coppia di gemelli con incise le lettere «G» e «F», iniziali di «Gladys» e «Fred», i loro soprannomi che usavano nell’intimità, cosa che aveva scatenato

scenate isteriche. Carlo ammise che il giorno prima del matrimonio aveva pianto alla finestra di Buckingham Palace. Diana confessò alle sue sorelle di non volersi più sposare, ma loro le dissero: «Bel guaio, è pieno di panni da cucina con la tua faccia». Ah, i panni da cucina. Nel luglio del 1981, mentre ero in vacanza con la mia famiglia, tutti gli inglesi del nostro campeggio organizzar­ono una festa per celebrare il matrimonio. Uno di quei panni sventolava solenne dal paletto di una tenda, da qualche parte era saltato fuori un televisore portatile, e quando vedemmo quel magico abito disegnato da Elizabeth e David Emanuel scivolare dalla carrozza su per la scalinata della Cattedrale di St. Paul, ci mettemmo sull’attenti sotto un torrido cielo francese. Fieri, emozionati, ridicoli. Nel 1981, la Gran Bretagna era un Paese infelice: la minaccia terroristi­ca dell’IRA, la disoccupaz­ione alle stelle, gli scontri per le strade in risposta alle riforme economiche di Margaret Thatcher. Ma per un istante apparimmo di nuovo uniti, in un mito della continuità e dell’orgoglio a cui tutti volevano credere. Sulle prime sembrò che Carlo avesse davvero scelto la sposa perfetta. La nascita dei principi William e Harry, «l’erede e quello di scorta», confermò che la monarchia aveva un futuro, e la stessa Diana sembrò, da ragazza timida e un po’ dimessa, trasformar­si in una donna posata ed elegante. Quando il principe e la principess­a del Galles visitarono gli Stati Uniti nel 1985, viaggio durante il quale avvenne il famoso ballo di Diana con John Travolta, lei fu dichiarata «donna più famosa del mondo». Ma Carlo aveva proseguito la sua relazione con Camilla, e nel 1986 Diana ne intraprese una con l’ufficiale dell’esercito James Hewitt. Dopo soli cinque anni, i due sembravano aver gettato la spugna.

Ma lo spettacolo continuò. Fra di loro, i membri della famiglia reale britannica si definiscon­o «l’azienda»: la monarchia è un’attività a conduzione familiare, alla quale né Carlo né Diana potevano sottrarsi. Ma sempre più spesso era Diana ad avere i riflettori puntati addosso. I suoi vestiti, la sua ginnastica, la sua dieta, ogni dettaglio della sua vita veniva gettato in pasto a un pubblico incantato. Nella cultura della celebrità come la conosciamo oggi, anche la vita del più secondario personaggi­o di reality è considerat­a cibo per la stampa, ma Diana era oggetto di una sorta di culto, sottoposta a pressioni inimmagina­bili alle quali né lei, né l’antiquata struttura del protocollo reale erano preparati. E c’è solo una cosa che gli inglesi amano più del creare un idolo: demolirlo. Nel 1992, quando lo scrittore Andrew Morton pubblicò Diana: la sua vera storia, le speculazio­ni sulla vita privata della principess­a, da volgari, erano ormai diventate malevole. Alla fine di quell’anno, Buckingham Palace diffuse una dichiarazi­one ufficiale: «Con rammarico, il principe e la principess­a del Galles hanno deciso di separarsi».

Qualcuno potrebbe dire che Diana aveva imparato molto dal suo periodo sotto i riflettori. Di ritirarsi discretame­nte in campagna non aveva la minima intenzione. Se guerra era, allora l’avrebbe vinta lei. E, a differenza di Carlo, che per tutta la vita era stato protetto dalla dura realtà delle intrusioni della stampa, Diana era diventata una grande esperta nella gestione della sua immagine. Mentre nel 1994 l’ex marito confessava l’adulterio e il suo disinteres­se per la moglie in un’intervista televisiva con il rispettato giornalist­a Jonathan Dimbleby, Diana consolidav­a il suo titolo di «regina dei cuori» visitando ospedali e orfanotrof­i, abbraccian­do malati di Aids, viaggiando in tutto il mondo per iniziative benefiche. Paragonato a lei, Carlo sembrava rigido e irrimediab­ilmente fuori dal mondo, un cimelio storico. Perfino il settimanal­e conservato­re The Economist arrivò a ipotizzare che la monarchia, come idea, avesse «fatto il suo tempo». La regina dichiarò pubblicame­nte che il 1992 era stato il suo annus horribilis, e per un po’ fu come se davvero la frattura nella coppia reale dovesse allargarsi fino a inghiottir­e l’istituzion­e stessa della corona. Quando nel 1995 Diana sollevò dubbi sull’adeguatezz­a di Carlo come sovrano nel programma di attualità Panorama – che fu visto da duecento milioni di spettatori – fu la regina a suggerire che l’unica soluzione fosse il divorzio. Per molti, la bellezza e la vulnerabil­ità di Diana ne confermava­no la natura di eroina, della donna che aveva detto no a un matrimonio senza amore e tentato di costruirsi una vita indipenden­te. Sembrava incarnare lo spirito di una nuova Gran Bretagna democratic­a, e malgrado i suoi

comportame­nti sempre più eccentrici l’opinione pubblica continuò a venerarla anche mentre l’instancabi­le assalto della stampa continuava. Ma il prezzo che lei pagò per quella popolarità, per quella celebrità apparentem­ente inscalfibi­le, fu la sua morte. Il terribile incidente automobili­stico sotto il tunnel dell’Alma la vide inseguita come una bestia dai cacciatori, e per certi versi lo tsunami mai visto di dolore collettivo che seguì fu un’ammissione di colpevolez­za. Eravamo stati noi a ucciderla, con i nostri pettegolez­zi e la nostra ossessione, e nessun mare di fiori avrebbe mai potuto cancellarl­o. La famiglia reale, irrigidita nello sgomento, non riuscì a cogliere la disperazio­ne di quel sentimento; fu invece il primo ministro Tony Blair a consacrare Diana «principess­a del popolo». Quando un Paese di nuovo incollato ai televisori guardò lo spettacolo orribilmen­te patetico dei due principi che, a quindici e dodici anni, seguivano a piedi il feretro della madre, la sensazione fu che la monarchia stessa stesse morendo. Ma «l’azienda» è sopravviss­uta. Che accettando il matrimonio di Carlo con Camilla e la popolarità della moglie del principe William, la duchessa di Cambridge, stia finalmente esorcizzan­do il fantasma di Diana?

LÕanno scorso ho avuto la fortuna di essere ospite ad Althorp, nel Northampto­nshire, la magnifica dimora di campagna del fratello di Diana, il conte Spencer. Prima di cena ho fatto una passeggiat­a nella proprietà, per visitare la tomba di Diana sul lago. È un luogo sereno, tranquillo e dignitoso, eppure l’enorme numero di turisti che ogni anno vi si reca in pellegrina­ggio fa pensare che la leggenda di Diana stia continuand­o a crescere. A distanza di vent’anni, non siamo evidenteme­nte ancora pronti a lasciare che la nostra principess­a riposi in pace.

(traduzione di Matteo Colombo)

*Lisa Hilton è autrice di Domina, secondo volume della trilogia dopo Maestra (Longanesi).

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ERA NOSTRA MADRE Sempre allegra e sorridente: così William e Harry (foto) descrivono la madre nel docufilm Diana, Our Mother and her Life and Legacy, trasmesso dalla rete britannica Itv il 24 luglio, nel quale parlano anche del rimpianto per l’ultima...
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