Il cavaliere
Atterrando a Napoli, avvolgendosi lentamente in volute attorno al Vesuvio, Piero ricordò il giorno in cui aveva visto il Fujiyama. Pensò che queste montagne di fuoco incombono sempre troppo, atterriscono i viaggiatori e ricordano agli abitanti di una certa caducità che fa male, rendono, chi ci vive sotto, umanità dolenti. Con questi sentimenti prese il taxi verso la città limitrofa di Pozzuoli, lì dove scoprì, dopo un breve tratto in tangenziale, che non era solo il Vesuvio a conflagrare il suolo, ma che anzi la strada che stava percorrendo, e che pure era fatta di banche e giardini, di scolari e negozi, era tutta poggiata sulla dorsale di un vulcano spento milioni di anni prima, e si chiamava infatti Campi Flegrei perché ci fosse un ricordo, nel nome, di tutto: e dei campi, spariti sotto la cementificazione, e di ciò che è fuoco. Piero era arrivato per la prima volta in Campania dal Veneto, con un sentimento sepolto e mai rivelato manco a se stesso di razzismo geografico: scapolo, sessantenne, senza figli, bello, abbastanza ricco e profondamente del Nord. Sapeva apprezzare cultura e libri, cinema e affetti, ma era anche cresciuto in una generazione che non ammetteva osmosi tra quella parte della penisola incastonata tra la bassa laguna di Venezia e le Prealpi, e il resto, quello che si stendeva sotto la linea gotica. Era arrivato a Pozzuoli, già avanti con gli anni, perché aveva liquidato una ditta di prodotti chimici, su al Nord, una ditta di cui era socio e, spinto dalla voglia di fare piuttosto che dalla necessità, aveva deciso di reinvestire una somma rilevando una piccola fabbrichetta puteolana. I primi giorni, quelli che servirono al notaio e ai registri per portarsi in pari, li trascorse nella stanza di un hotel che, nonostante fosse un quattro stelle, aveva una stanza piccola piccola, per raggiungere la quale bisognava inerpicarsi su una rampa di scale non servita dall’ascensore. Una stanza infestata di zanzare. Piero era stanco e molto scontento. C’era una sola cosa che gli dava gioia, lì, in quei giorni. Non era una cosa, era piuttosto un miraggio, una proiezione di sé: quel pezzo di terra verde che vedeva al di là del golfo, al di là del porto, quella sottile linea gettata in mezzo al mare, quasi a far da ponte con la terra ferma, che di notte si accendeva di luci. Procida, ingegnè, quella è Procida, è un’isola, è un’isola strana, andatela a vedere. Sopra ci fecero pure un libro importante, mo non lo so come si chiama. Piero aveva pensato che, prima di ripartirsene per il Veneto, sarebbe andato a vedere Capri e Amalfi, ma di Procida non sapeva neppure l’esistenza. Così salpò la mattina presto su un battello strano, tutto giallo, sembrava un postale norvegese, e in capo a pochissimi minuti gli si parò davanti altissimo, quasi turrito, l’antico carcere, e allora gli sovvenne quale fosse il romanzo: era L’isola di Arturo di Elsa Morante. L’isola galleggiava mollemente, lunga e stretta, alta al suo mezzo, e piena di minuscole case colorate. Una cupoletta di piccola chiesa troneggiava a est, e pochi passi oltre la chiesetta, Elisabetta, seduta al Bar del Cavaliere, si lamentava assai con le sue amiche.
Elisabetta aveva una bella casa antica, sul corso principale dell’isola, tinteggiata di rosso pompeiano, con un giardino a ulivi e limoni e viti, e in mezzo alla verzura: una piccola dépendance dove ospitare gli amici. Elisabetta aveva molto bisogno di amici, e quasi quel ritorno all’isola dei suoi genitori e di sua nonna era in sé la ricerca di un’amicizia indelebile, più che un ritorno alle origini: un ritorno a se stessa. Era scappata da Roma. Scappata, anche se sembrava un viaggio, anche se la speranza e l’angoscia erano state inamidate e piegate con ordine dentro le valigie, anche se il traghetto era di linea, ma lei era scappata da una relazione di otto anni che non le regalava niente più. Non c’è nulla di peggio che non avere nulla da recriminare a chi non si ama più, e non avere manco un nuovo amore tra le mani, e avercelo davanti quell’ex amore, spettro lugubre di quello che era stato, e non poterci fare nulla. I figli di Elisabetta erano grandi, all’epoca dei fatti, così non c’era proprio nulla a legarla che se stessa, e allora era scappata. E stava al Bar del Cavaliere a lamentarsi e guardare l’orizzonte e chiedersi «emmò? Emmò?», riprendendo a poco a poco l’accento isolano. Si era messa di lena a riaprire la casa, lavare le tende, ritinteggiare il cancello, passare la tosaerba nel giardino, e ogni sera a quell’ora, alle 19, a piedi, piano piano se ne scendeva
Non c’è nulla di peggio che non avere nulla da recriminare a chi non si ama più, e non avere manco un nuovo amore
giù al porto a bere un cocktail martini. Che bella sensazione, pensava, camminare a marzo con le infradito, guardarsi i piedi e non sentire freddo. Che miracolo. Però poi, al terzo cocktail, le arrivava quella sbornia triste che le faceva dire alle amiche «emmò? Emmò?». Adesso chiunque abbia una certa dimestichezza con le narrazioni ha capito cosa stava per accadere di lì a poco: appena cioè Piero avesse finito il suo giro in taxi. Sì perché, arrivato al porto di Procida, sbarcato dal postale giallo, Piero avvertì dentro di sé un sentimento nuovo: era gratitudine. Non che non ne avesse provata in passato: ciò che fu nuovo è che non seppe a cosa attribuirla. Prese un caffè, benedisse i baristi del golfo di Napoli per quella bevanda che ridava agli uomini la forza che dovettero rubar loro gli dèi millenni prima, e tutto felice si gettò in uno di quei taxi aperti che girano sulle isole in cui non piove mai: un Ape Piaggio. Anche il tassista fu davvero felice: perché il suo primo cliente (si era a marzo!) quel giorno non aveva una meta, bensì disse la frase da cinquanta euro, quella che tutti i tassisti del mondo aspettano: «Portami a vedere l’isola». E così il tassista girò per lungo e largo, e lo portò sul promontorio di Santa Margherita, lì dove un pontile lungo la collega con Vivara, e lo portò a mangiare alla Chiaiolella e aspettò che finisse prima di fare Solchiaro e poi passare per il belvedere, appeso alla lava, e poi terra murata e aspettò di nuovo che Piero guardasse la chiesa di San Michele e poi di nuovo giù. Alla Corricella non lo poté accompagnare: perché è un posto che si raggiunge solo a piedi. Ma lo aspettò in cima, e infine, dopo tanti sorrisi e lautissima mancia, lo lasciò al porto, davanti al Bar del Cavaliere, proprio mentre il postale giallo della sera cominciò a doppiare il faro.
Andò così che Piero ed Elisabetta si incontrarono. Ancora adesso le amiche di Elisabetta ricordano di averla vista bloccarsi sul far della sera, come una statua di sale, e poi imporporarsi la fronte all’attaccatura dei capelli bianchi. Forse non è stato detto abbastanza che tutti e due hanno i capelli bianchi, il che dona tanto quando la pelle è abbronzata. Piero la vide con il cocktail martini in mano e disse: «Come è?», e lei rispose: «Il migliore del Mediterraneo: il barman ha lavorato per quarant’anni sulle navi da crociera americane…». Quello che nessun narratore riesce a fare, ora, è concludere questa storia: infatti Elisabetta e Piero camminano ancora adesso, dopo tanti anni, abbracciati per l’isola di Arturo. Alle 19, immancabili, li trovate al Bar del Cavaliere. E talvolta, durante l’estate, si vedono coppie di giovani che li indicano e si dicono stringendosi: «A sessant’anni noi diventeremo così».