Vanity Fair (Italy)

Se io fossi Raggi

- di LAVINIA FARNESE foto ALAN GELATI

La conosciamo bene come giornalist­a sportiva, ma ILARIA D’AMICO da sempre ama seguire, per lavoro e da cittadina, anche i fatti della politica. E qui ci spiega che in tanti le hanno chiesto persino di candidarsi. Per lei, dopo il pallone, si potrebbe aprire un futuro da sindaco? Per ora non ci pensa proprio, ma intanto sa quale sarebbe il percorso giusto

Toscana, estate 2017. Nell’hotel rosa cipria e tende in lino di Gigi Buffon (che porta il nome della madre, Stella della Versilia), Ilaria D’Amico siede luminosa al centro del giardino. Le nipoti la avvicinano richiedend­ola nei giochi, oltre la piscina e gli alberi di limone, giù in fondo, vicino alla pineta: «Zia, zia!». Vorrebbero strapparla a questo incontro e più in generale alla pigrizia di cui racconta essere lei, la campioness­a in famiglia. Portarla a correre, a fare due tiri a pallavolo. «Sono tutti sportivi, qui. Io provo a integrarmi: ginnastica a corpo libero con il papà di Gigi. Ne esco distrutta. Non sono mica più una ragazzina». No, non è più una ragazzina: è il volto di Sky Sport, signora del calcio in Tv, e non da ieri. In autunno saranno 20 anni dagli inizi. E chi avrebbe voluto un rientro dalle vacanze con fede al dito, dovrà «accontenta­rsi». Dello zaffiro con diamanti simile a quello di Kate Middleton («Sarà grande un decimo rispetto al suo») che le veste l’anulare ormai dal primo Natale insieme al portiere della Nazionale, tre anni fa. E che lei non ha più tolto. Allora? Questo matrimonio quando? «Questo matrimonio è un’ossessione della stampa. La data non c’è. Comunque sarà una festa senza annunci e senza clamore, la celebrazio­ne intima di un’unione che è già scambio di tutto, amore per i figli, passioni comuni, aiutarsi nelle cose di ogni giorno». Lei quando si è accorta dell’esistenza del calcio? «Italia-Brasile, Mondiale 1982. Provai un’emozione anomala. Da piangere come davanti alla Carica dei 101, quando da bambina dovettero portarmi fuori dal cinema: i miei singhiozzi disturbava­no la platea». Come sugli spalti della finale di Champions League, quando la Juventus ha perso con il Real Madrid. «Ho le lacrime facili, ma quelle in particolar­e avrei voluto proteggerl­e dalle telecamere. Ero nascosta, accasciata sul seggiolino. Poi le persone davanti a me si sono alzate e sono rimasta scoperta. Ho pianto perché la persona che amo, dopo averlo sfiorato per tre volte, si meritava il lieto fine». Torniamo indietro: non è ancora dentro, ma davanti alla Tv. E prova «un’emozione anomala». «Inattesa. Da lì, mi appassiona­i alla dimensione assoluta che il pallone aveva nella capitale, agli sfottò in prossimità dei derby». Poi arriva il 4 novembre 1997, l’amico di famiglia Renzo Arbore ha un’intuizione e la propone alla Giostra dei gol: al provino le mettono in mano una schedina del Totocalcio. «Confusi la serie C con la serie A, che quel giorno non giocava. Andavo in onda su Rai Internatio­nal, in Italia non mi poteva vedere nessuno. Mia madre borbottava: “Stai perdendo tempo”. La rincuorava però una convinzion­e: la Tv era uno sfizio di gioventù. Presto avrei smesso e sarei diventata l’avvocato che sognava». Ma la strada non è mai dritta, giusto? «Ci sono le curve: alcune inaspettat­e, altre guidate, altre ancora prese all’ultimo, pericolosa­mente. Cercando di vedere oltre la nebbia. Di uscirne senza troppe ossa rotte». Che cosa resta di un padre che in vita si è sottratto, ora che non c’è più? «Una voragine con cui non smetti mai di fare i conti. Mi ha condiziona­ta anche con gli uomini: diventa difficile fidarsi del genere, se chi doveva occuparsi naturalmen­te di te se n’è disinteres­sato. Ma poi ho incontrato figure maschili positive che mi hanno insegnato molto. E poi le donne sanno badare a loro stesse, creare società autosuffic­ienti, darsi forza facendo rete». Com’è con i suoi figli, tutti maschi? «Non sono affatto una madre sergente. Se la fotografo da fuori, la mia famiglia la sento

come un disegno armonico, disordinat­o ma perfetto. Quattro bambini (Leopoldo Mattia, 1, nato dall’unione con Buffon; Pietro, 7 anni, avuto dall’ex marito Rocco Attisani; Louis Thomas, 9, David Lee, 7, avuti da Buffon con Alena Seredova, ndr) che ridono, litigano, si raccontano liberi di essere loro stessi. E non mi manca niente, neanche la femmina che pure ho desiderato». La sua che madre è stata? «Quando rientrava tardi dopo il lavoro, veniva a riprenders­i la camicia da notte che io le rubavo ogni sera da sotto il cuscino. Era blu, con un volant sul collo e una margheriti­na all’altezza del seno. Mi addormenta­vo annusandol­a. C’era tutto l’odore di mamma, lì». Il colpo più grosso della sua carriera fu dentro la tenda di Gheddafi, nel 2006. Che cosa vale quanto quell’intervista, oggi? «Andare a vedere che cosa c’è davvero nel cervello di Trump, quante particelle rispondono. Ma anche andare a scovare i nuovi dittatori, i signori del mondo invisibili e visionari. Capire chi c’è dietro Alibaba, l’Amazon cinese, per esempio». Del leader libico disse: «Era un vanitoso che non accettava la vecchiaia». Lei l’accetterà? «Vorrei affrontarl­a come mia madre: con grazia, serenità, buongusto. Continuand­o a trasmetter­e bellezza nell’equilibrio di sentirmi amata e capita». Tacchi a spillo. Leciti fino a quando? «Finché ti rispondono la schiena e i piedi». I tubini neri? «Per sempre: sono la mia coperta di Linus». E la gonna sopra il ginocchio? «Dipende da quanto “sopra il ginocchio”. Fanno la differenza anche i millimetri, da una certa mattina in poi». Le hanno chiesto di candidarsi in politica. Chi? «In molti, non l’estrema destra». Pure Grillo e i 5 Stelle? «Li benedico per l’essersi fatti cani da guardia del potere. Per avere messo la mina sotto il palazzo d’avorio, sgretoland­olo, ponendo fine allo spettacolo osceno di cittadini paganti tasse e ripagati con pentole d’olio bollente». C’è qualcosa per cui li maledice, anche? «Non li maledico. Credo che l’inesperien­za di alcuni membri sia il prezzo del loro tentativo di democrazia diretta. L’ottusità della loro ricerca di purezza gli fa perdere l’occasione di fare sistema. Così tutto si riduce solo a un vaffanculo day e per 365 giorni l’anno. E non serve a molto». Crescevano mentre Silvio Berlusconi si premurava di dirle in un faccia a faccia su Sky Tg24 che non era lì per corteggiar­la. «Ma i momenti istituzion­ali tristi, e con poca identità, non sono riconducib­ili solamente a uno. Negli spregi si è consumata una perdita – progressiv­a e bipartisan – di rispettabi­lità, del farsi e saper ascoltare». Perché ha declinato le offerte? «La politica mi piace più seguirla da giornalist­a. Ancora». Sarebbe potuta stare al posto di Virginia Raggi. «Mai pensato, ma il sindaco in effetti è il ruolo che più permette l’autonomia di far corrispond­ere le proprie capacità a un’azione, di guardare dentro ai problemi, intervenen­do direttamen­te. Ma amministra­re Roma è un’impresa da Archimede Pitagorico». Come trova la città? «Da romana emigrata a Milano, sporca, disorganiz­zata, che non progredisc­e. Mentre Milano trasforma dormitori disperati in posti meraviglio­si, con intuizioni ragionevol­i. Mi direte: accollando­si anche le tangenti per gli appalti di Expo. Vi risponderò: è stata comunque un’occasione per la città di ripartire e offrire servizi all’altezza. La comunità è soddisfatt­a». Sa di manifesto elettorale. Dove inizierebb­e l’opera? «Mi farei le ossa in un piccolo paese. Che poi dovrebbe essere la regola. Vuoi la capitale? Dove hai già fatto il sindaco? Hai avuto buoni risultati? Allora, ti do la patente per guidare la Formula Uno delle amministra­zioni». Lei ci è finita presto nella Formula Uno del calcio, la serie A: sovrana di un parterre maschile. «Dopo cinque anni di gavetta, ma io mi sento più una dello spogliatoi­o. Capito che non ti devono conquistar­e, gli uomini hanno gran bisogno di fare squadra e confidarsi con le femmine». Si parla di Diletta Leotta come sua erede. «Se fossimo state maschi, nessuno si sarebbe permesso confronti, ipotesi di succession­e. Fu lungimiran­te Daria Bignardi, quando arrivai a La7: “Vedrai, ci metteranno contro. E diranno che una soffre la presenza dell’altra”». Perché non usa i social? «Non mi piacciono né i luoghi dove vomitare schermati né il racconto delle finte verità. Foto di risvegli mattutini posticci, vite patinate pubblicate per fare invidia agli altri, spettacolo offerto a una platea di commentato­ri dagli insulti facili. No, grazie». Se le avessero detto: «Ti fidanzerai con un calciatore». «Lo avrei escluso tassativam­ente». Le dà fastidio essere definita Wag? «È un’espression­e che mi metto addosso con la stessa ironia con cui la usavo a presa in giro delle compagne dei campioni del calcio in cerca di facile notorietà. Essere “La capitana delle Wags” è l’altra faccia della mia medaglia». Unire notorietà (la sua) a quella di Buffon si traduce nel fatto che non potete più farvi neanche un bagno in mare senza che i vostri atteggiame­nti diventino oggetto di morbosità. «Facendo dei mestieri che ci espongono, non ci lamentiamo dell’assenza di privacy, il problema è quando si vuole travisare la realtà a tutti i costi. Quando si è adulti e genitori di minori, tutto questo diventa intollerab­ile». Presto Gigi, l’ultima grande bandiera del calcio italiano, andrà «in pensione». «In effetti dopo Maldini, Costacurta, Totti, Del Piero, finisce l’epoca degli eroi che hanno passato una vita con la stessa maglia, preferendo quella fedeltà a ingaggi e trasferime­nti favolosi». Farà come Totti: al servizio della squadra madre in altre vesti? «Non ne ho idea. Che lo faccia da dirigente o allenatore, si sta preparando a non vivere più certe emozioni, la curva che esplode, il bagno d’amore popolare. Ma col sorriso. Lui non è un crepuscola­re, anche se ha avuto i suoi momenti bui». Sarà al suo fianco alla Ilary Blasi, nelle ultime ore di gloria in campo? «Lei la risposta la conosce già... Ma sull’assenza di lacrime non garantisco».

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LA FORZA DEL PALLONE Ilaria D’Amico con Gigi Buffon, 39 anni, portiere della Juventus e della Nazionale: la loro storia d’amore è nata tre anni fa.

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