Vanity Fair (Italy)

ESSERE DONNA

«I MIEI LAVORI RIFLETTONO LA MIA CONDIZIONE: IN UN CONTESTO DI AUTORITARI­SMO POLITICO»

- SHIRIN NESHAT, ARTISTA E REGISTA IRANIANA

Gli occhi allungati con una spessa riga di kajal la rendono subito riconoscib­ile. «Tutti pensano sia per ricordare la cultura iraniana, in realtà per me è un qualcosa di molto più spontaneo. Mi trucco così da trent’anni e non esco mai senza, nemmeno per portare fuori il cane... Mi dà un senso di sicurezza. Poi fa “very Egyptian”: le donne ritratte sui templi l’avevano uguale». L’artista visiva e regista Shirin Neshat non dimostra i suoi 60 anni, ed è più impegnata che mai. La incontro a Salisburgo durante le prove per la sua prima regia lirica (l’ Aida, diretta da Riccardo Muti, che ha debuttato il 6 agosto al Festival della città austriaca), per parlare del suo ritorno alla Mostra del Cinema. Il suo film, in concorso a Venezia nella sezione Giornate degli Autori, è dedicato alla cantante egiziana Oum Kulthum: un mito ancora oggi per centinaia di milioni di persone, l’equivalent­e nel mondo arabo di una fusione tra Bob Dylan, Elvis, Mina e Maria Callas.

«La musica per me è l’arte universale», dice Neshat, «perché suscita emozioni che partono dalla pancia prima di arrivare alla mente, al di là della comprensio­ne delle parole». La musica accompagna anche le tappe della vita di Shirin, che ha passato negli Stati Uniti il doppio degli anni passati in Iran. È stata quasi una groupie di Van Morrison e degli Who quando viveva da ragazza a San Francisco e ha visto esibirsi Madonna agli albori in discoteche mitiche della New York anni ’80 come il Mudd, tra un vernissage di Keith Haring e le serate di Andy Warhol allo Studio 54. In un gioco di specchi, l’opera che porta a Venezia, Looking for Oum Kulthum, «è la storia di un’artista iraniana alla ricerca di se stessa che fa un film su un’icona, di una donna che racconta un’altra donna per esplorare il prezzo che il sesso femminile deve pagare per dedicarsi alla propria passione». La stessa Oum Kulthum ha iniziato la carriera fingendosi un ragazzo, perché esibirsi in pubblico era considerat­o sconvenien­te per una donna. Nata nel 1904, definita negli anni ’60 dall’allora presidente egiziano Nasser «la quarta piramide d’Egitto», era così popolare che uffici e negozi chiudevano, e perfino il Parlamento interrompe­va le sedute, per permettere a tutti di ascoltare i suoi concerti radiofonic­i del giovedì. Il suo funerale nel 1975 fu seguito da un corteo di 10 chilometri, formato da oltre 2 milioni di persone. «Oum non si è mai sposata, non ha avuto figli e qualcuno ha sostenuto che fosse lesbica. Ha dovuto rinunciare a molte cose per la sua arte», ricorda Neshat. Il film è ambientato in Egitto, ma è stato girato tra il Marocco e Vienna, dove hanno recitato come comparse anche alcuni rifugiati siriani e iracheni. «È stato toccante vedere tanti ragazzi, nati più di 20 anni dopo la scomparsa di Oum, commuovers­i fino alle lacrime ascoltando le sue canzoni». Quelle melodie rappresent­ano la casa lontana anche per Shirin? «Avevo 17 anni quando mi sono trasferita all’università di Berkeley per studiare arte. Volevo dimenticar­e tutto quello che era “tradiziona­le”, musica inclusa. Eppure, anche se la mia famiglia ha sempre vissuto all’occidental­e, mi sentivo lo stesso come un pesce fuor d’acqua». Era il 1974 e il campus ribolliva della cultura post hippy. «La musica era un modo per socializza­re. Pure le droghe per dire la verità... ma ho saputo resistere», sorride. «Ascoltavam­o un po’ di tutto: da Etta James e Elton John, fino agli Eagles. Dopo un concerto, ho anche incontrato Stevie Nicks dei Fleetwood Mac». In California però non era felice. Proprio quando si chiedeva se chiudere con l’esperienza americana, nel 1979 scoppiò la rivoluzion­e islamica degli ayatollah che le impedì di tornare in patria fino al 1990. Nel 1983 si trasferì a New York, dove vive tuttora: «Erano gli anni d’oro dell’East Village, l’arte spopolava e il mio essere iraniana mi rendeva più attraente. Dopo un vernissage di Jean Michel Basquiat ho conosciuto e un po’ frequentat­o un artista dei graffiti, famoso anche oggi, che proprio per questo preferisco non nominare». A New York si sposò con il coreano Kyong Park, da cui ha poi divorziato, ed ebbe un figlio, Cyrus. Il successo arrivò dopo il primo ritorno in Iran nel 1990. «Quando tornai ogni cosa era cambiata. Sembrava che ci fossero pochi colori: tutto era bianco o nero, tutte indossavan­o il chador. Fu uno choc». La nascita artistica di Shirin avvenne allora, con il ciclo di fotografie Women of Allah. Nel 1999 vinse il Leone d’Oro alla Biennale Arti visive con la videoinsta­llazione Turbulent. Nel 2009, il suo film d’esordio Donne senza uomini, realizzato con l’attuale compagno, l’iraniano Shoja Azari, conquistò il Leone d’Argento per la miglior regia. «L’Italia ha sempre creduto in me, e il progetto di quest’anno non fa eccezione». Looking for Oum Kulthum ha due coprodutto­ri del nostro Paese, Vivo Film e In Between Art Film, fondata nel 2012 da Beatrice Bulgari per esplorare i confini tra cinema e arte contempora­nea. «Beatrice ha capito subito che questo non è un biopic tradiziona­le, ma un crocevia di linguaggi. Del resto lei ha cominciato la sua carriera disegnando costumi e conosce il mondo artistico». Mentre parliamo, si avvicina la costumista con in mano due campioni di stoffa scura e una decorazion­e dorata. Siamo agli ultimi ritocchi in vista della prima di Aida. La regista si scusa, poi riprende: «Il mio nomadismo nel fare arte rispecchia il mio stile di vita. I miei lavori sono spesso il riflesso della mia condizione personale: la vicenda di qualcuno senza casa, l’essere donna in un contesto di autoritari­smo politico». La prima idea del film è nata ad Amsterdam sei anni fa, su suggerimen­to di Bahman Kiarostami, figlio del regista Abbas. «Ascoltavam­o un disco della libanese Feyrouz», racconta, «e Bahman mi ha detto: “Dovresti raccontare la storia di Oum Kulthum, artista donna in un mondo di uomini”. Tutto è partito da lì». Noto gli orecchini che porta durante il nostro incontro, semplici per lei che ha una collezione di oltre 200 gioielli dei luoghi più disparati, abbinati spesso ad abiti monocolore (Comme des Garçons, Jean Paul Gaultier e Alberta Ferretti di preferenza). «Sono iraniani, di pelle dipinta e argento. Me li ha regalati mia sorella. È qui con gli altri miei fratelli e mia madre per vedere Aida. Non ci riunivamo tutti da parecchi anni, e sono contenta di stare di nuovo insieme, almeno per un po’...». L’intervista è finita, Shirin ha un’aria più leggera. «Sono giorni molto pieni, ed ero un po’ tesa», confessa. «Sa cosa ho fatto per tranquilli­zzarmi? Mi sono struccata, e poi ho ripassato l’eyeliner. Per me è come una protezione. Ci ho messo un po’, ma mi conosco. Alla fine ero sollevata».

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COME MINA E CALLAS Oum Kulthum raccontata nel film di Neshat. Gli album della cantante egiziana sono ancora oggi tra i più venduti nel mondo arabo.

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