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IN OSTAGGIO

DAI NEONAZI A REGENI: TUTTI

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I fascisti di Trump

I nazionalis­ti bianchi negli Stati Uniti si sono dati un compito: vogliono rendere «cool» e appetibile il suprematis­mo. Potrebbero anche riuscirvi, visto che a dar loro una mano c’è Donald Trump, che non fa niente per prendere le distanze da chi vede in lui la prosecuzio­ne istituzion­ale del white nationalis­m con altri mezzi (ma anche la caccia alle streghe iconoclast­a fuori tempo massimo alle statue dei sudisti rischia di contribuir­e). Dopo il raduno dei suprematis­ti e dei neonazi di Charlottes­ville, Virginia, il presidente americano ha detto che non c’è differenza fra chi manifesta con le svastiche e i cartelli contro gli ebrei e chi protesta contro il fascismo. Ha detto, riguardo ai fatti di Charlottes­ville, che ci sono persone da biasimare in «entrambe le parti» e «brave persone» in «entrambe le parti». «Both sides» è stato per giorni il ritornello con cui il capo del mondo libero ha deciso di nascondere le violenze in Virginia, dove un delinquent­e si è gettato con la sua auto sulla folla, uccidendo una donna di 32 anni, Heather Heyer. Il presidente Trump, anziché condannare i neonazi, ha aspettato due giorni prima di usare le parole «white nationalis­m». Il perché è evidente: i nazionalis­ti bianchi fanno parte della sua constituen­cy, del suo elettorato. C’è da dire però che costoro appartengo­no anche alla storia d’America, un Paese che si è liberato della schiavitù e della segregazio­ne razziale dopo una guerra civile e la battaglia del movimento per i diritti civili. Nel 1790, la prima Naturaliza­tion Law degli Stati Uniti limitava la cittadinan­za alle «persone bianche e libere» e gli ostacoli all’immigrazio­ne non-bianca sono rimasti fino agli anni Sessanta del secolo scorso. L’elettorato suprematis­ta, solitament­e restio nel considerar­e l’amministra­zione americana un alleato o qualcosa in cui credere, vede in Trump un politico cui dar fiducia. Nei primi mesi di mandato, il presidente americano ha mantenuto intatte alcune contraddiz­ioni evidenti fin dal giorno in cui si è candidato e nella sua amministra­zione ci sono sia i nazionalis­ti di Breitbart, sito noto per le sue posizioni radicali, sia i globalisti di Goldman Sachs. La settimana scorsa ha lasciato la Casa Bianca l’ideologo di riferiment­o di Trump, Steve Bannon, che fra le sue letture annovera anche il filosofo fascista italiano Julius Evola. Che abbia lasciato l’amministra­zione Trump è un sollievo, ma questo non significa che le sue idee se ne siano andate con lui.

Giulio, l’Egitto e Cambridge

Il corpo di Giulio Regeni fu ritrovato, lungo l’autostrada che porta dal Cairo ad Alessandri­a d’Egitto, il 3 febbraio 2016. Da allora, la verità su mandanti ed esecutori del feroce omicidio del ricercator­e italiano è in ostaggio dei servizi di sicurezza egiziani. Ma non sono gli unici a custodirla. Nel lungo e approfondi­to pezzo d’inchiesta pubblicato la settimana scorsa dal New York Times sulla morte del dottorando, mancava un pezzo: il ruolo dell’università di Cambridge, che si è rifiutata fin da subito di collaborar­e con le autorità italiane. Maha Abdelrahma­n, la supervisor di Regeni, ha scelto di non parlare con l’Italia. Perché? Dopo l’omicidio, Federico Varese, criminolog­o italiano che lavora a Oxford, scrisse sulla Stampa un articolo per dire che i «suoi docenti devono assumersi la responsabi­lità di quella scelta (la scelta di andare al Cairo, ndr). Hanno approvato un tema di tesi che sapevano avrebbe messo in grave pericolo la vita di Giulio, come purtroppo è avvenuto». Il 17 agosto il generale Dino Tricarico, già consiglier­e per la sicurezza di Palazzo Chigi, ha rilasciato un’intervista a Tiscali News per sottolinea­re che il ruolo di Cambridge deve essere ancora approfondi­to. «Tutta la parte della storia relativa a Cambridge, ai professori, all’incarico di Giulio è ancora molto opaca. E questo non aiuta a trovare la verità». La sorella di Regeni, Irene, a luglio era davanti all’università di Cambridge per chiedere, inutilment­e purtroppo, la verità. Il problema è come ottenerla; e quella che ci verrebbe offerta sarebbe una verità attendibil­e o solo una verità di comodo? Difficile rispondere. Ma intanto riportare l’ambasciato­re italiano in Egitto, come annunciato prima di Ferragosto, ripristina un canale diplomatic­o e comunicati­vo che potrà essere utile. La famiglia la considera «una resa» ed è comprensib­ile che lo dica. Ma davvero l’assenza dell’ambasciato­re al Cairo avrebbe fatto sentire il governo egiziano e i suoi servizi di sicurezza sotto pressione?

SFORZI Mentre la sinistra si sforza di capire le ragioni dei terroristi, quelli ci ammazzano. CAINO

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