Vanity Fair (Italy)

SE ADESSO TOCCA A NOI

Rukmini Callimachi, del New York Times, è una delle principali esperte al mondo di ISIS. Ecco la sua analisi dopo l’attentato a Barcellona e che cosa deve aspettarsi l’Italia. Dove una strategia «interessan­te» potrebbe non bastare

- di ENRICA BROCARDO

éstata tra i primi giornalist­i a riportare in una serie di tweet l’esultanza dei sostenitor­i dell’Isis dopo l’attacco di Barcellona. Inviata del New York Times, esperta di terrorismo jihadista, Rukmini Callimachi si trova in Iraq, dove sta seguendo la lotta tra le forze della coalizione e lo Stato islamico. Le abbiamo parlato al telefono per conoscere la sua opinione sugli attacchi di Barcellona e Cambrils. Alcuni hanno parlato di un cambio di strategia: i terroristi non pensavano di sacrificar­e le proprie vite nell’attacco ma avevano un piano di fuga. «Non è una novità. A Parigi, allo Stade de France e al Bataclan, erano coinvolte diverse missioni suicide, ma c’era anche un’unità di cui faceva parte il leader che fece perdere le proprie tracce per giorni. È una tipologia di attacco. La chiamano “inghimasi”, in arabo significa “immergersi”. Le questioni importanti, semmai, sono altre. Primo: questo gruppo è ancora molto pericoloso. L’Isis ha dichiarato che i simpatizza­nti che vivono in Occidente hanno il compito di portare avanti la lotta jihadista nei Paesi che fanno parte della coalizione che combatte lo Stato islamico e la Spagna è uno di questi. Dal 2013 al 2016, nel Paese, ci sono stati 173 arresti di persone collegate alla jihad. A questi attentati ci stavano lavorando da almeno un paio di anni». La seconda questione? «A dar retta ai commentato­ri in Tv, si ha l’impression­e che lo Stato islamico sia quasi sconfitto. La verità è che, dopo la caduta di Mosul, l’Isis controlla ancora due fra le principali città irachene: Hawija e Tal Afar (le forze della coalizione hanno dato il via all’operazione Tal Afar proprio il 20 agosto scorso, ndr). Senza contare i territori non urbani e quelli in Siria». Perché l’Europa è diventata il bersaglio principale. Perché non gli Stati Uniti? «Perché tramite la Turchia è più facile entrare in territorio siriano, venire addestrati e, successiva­mente, creare reti online con chi è rimasto nei Paesi europei di provenienz­a». Secondo lei, come mai in Italia non è successo? «Avete una politica in parte diversa dagli altri Paesi: chi risulta collegato con un gruppo estremista, viene rimandato a casa. Penso, per esempio, all’espulsione di Moez Fezzani, uno dei leader dell’Isis in Libia (nel 2012, ndr). È una strategia interessan­te e potrebbe spiegare, in parte, perché non ci siano stati ancora attacchi. Ma il vostro Paese è stato citato spesso nei loro messaggi di propaganda ed è stato indicato come il prossimo obiettivo. Temo che accadrà anche da voi». A proposito di Libia, gli accordi siglati dal nostro governo per contenere il flusso migratorio potrebbero avere un qualche tipo di ripercussi­one? «La grande maggioranz­a di chi tenta la traversata sono persone in cerca di aiuto, ma è plausibile che l’Isis possa infiltrare alcuni suoi uomini su quelle navi. Non so se sia già accaduto, ma Abdelhamid Abaaoud, il leader degli attacchi in Francia, approfitta­va del flusso di migranti provenient­i dalla Siria attraverso la Turchia per far passare i suoi uomini». Quanti sono i terroristi pronti ad agire in Europa? «Un anno fa circa, fonti dell’intelligen­ce mi hanno parlato di centinaia di uomini tornati dalla Siria in Europa dopo l’addestrame­nto e di altre centinaia in Turchia. Quanti di questi sono stati arrestati nel frattempo e quanti, delusi dall’Isis, hanno cambiato vita? Non lo sappiamo. Poi ci sono altri uomini addestrati a distanza. La loro preparazio­ne è più carente, ma vogliono comunque farci del male e sono disposti a morire per riuscirci. E questo basta a renderli estremamen­te pericolosi».

IL DOLORE Il re di Spagna Filippo VI con la moglie Letizia davanti al memoriale delle vittime dell’attentato del 17 agosto sulla Rambla di Barcellona.

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