Vanity Fair (Italy)

SE QUESTO È UN LAGER

JOE ARPAIO, lo sceriffo «più duro del West» graziato da Trump, ha evitato di scontare la pena nella prigione-tendopoli che aveva creato. E che avevamo visitato: tra lavori forzati, catene e mortadella scaduta

- di LUCA DINI

Adall’ex sceriffo della Contea di Maricopa in Arizona – Phoenix e dintorni, lla fine, la condanna definitiva da cui Donald Trump l’ha salvato – violazione dell’ordine di un giudice: massimo 6 mesi di galera, pena ancora da comAminare

– è stata quella politicame­nte più rilevante, ma non la peggiore che Joe Arpaio abbia rischiato. Politicame­nte rilevante perché l’ordine violato quattro milioni di abitanti – era quello in cui il giudice gli intimava di mettere fine alle retate di latinos, in sostanza alla profilazio­ne razziale di individui arrestati senza colpa certa, se non quella di essere di origini messicane e quindi sospettati di essere entrati illegalmen­te dalla vicina frontiera. Un tema caldissimo, in tempi di muro promesso, e infatti la discussa grazia presidenzi­ale è stata vista come uno schiaffo alla comunità ispanica. Ma nei suoi 24 anni da sceriffo – eletto nel 1992 e cinque volte rieletto, sconfitto solo l’anno scorso dal rivale democratic­o – Arpaio è stato accusato di peggio. La morte di 160 detenuti, tra suicidi, pestaggi, mancata assistenza sanitaria, parti avvenuti in condizioni inumane – morti costate 140 milioni di dollari di liquidazio­ni ai contribuen­ti. Abuso di potere – un giornalist­a arrestato perché indagava, un giudice spiato per aver preso di mira i suoi metodi, uso improprio dei fondi –, un vice mandato inutilment­e alle Hawaii a cercare la prova della «non-americanit­à» di Obama, vera fissa dello sceriffo, e abusi sessuali ignorati per «carenza di risorse». Persino un ragazzo incastrato (e anche lui poi risarcito) in un fintissimo attentato contro Arpaio – una delle sue tante trovate pubblicita­rie. Che Arpaio fosse in cerca di pubblicità lo capii quando, nel 1998, vidi entrando nel suo ufficio l’insegna luminosa «Vacancies» («camere libere») e, sotto: «Lavori forzati, panini alla mortadella scaduta, un pasto 35 cent, biancheria rosa, massima di 50°, niente sigarette, niente caffè, niente foto di donne nude». Lo «sceriffo più duro del West» (sua definizion­e) aveva attirato l’attenzione dei media aprendo nei quartieri poveri del centro, tra una discarica e un incenerito­re per cani randagi («Così ci trovate seguendo la puzza»), una prigionete­ndopoli. Siamo in pieno deserto e sotto le tende, reliquie della guerra di Corea, in estate si muore (massima misurata nel 2011, e annunciata con orgoglio da Arpaio: 63°). Ricordo i detenuti che la sera inzuppavan­o le lenzuola d’acqua. Ricordo la biancheria rosa: la scusa era che così non potevano rivenderla fuori, in realtà era un modo per umiliarli, non a caso li si faceva sfilare incatenati in boxer e infradito. Ricordo il filo spinato elettrific­ato e i pastori tedeschi ringhianti («Qui è come un campo di concentram­ento»). Ricordo le uniformi a righe bianche e nere, come ai tempi di Sing Sing. Ricordo le chain gang, i detenuti ai lavori forzati, incatenati l’uno all’altro, con giusto la distanza per poter entrare nel gabinetto chimico senza essere slegati, portati a zappare i marciapied­i del centro città, così che i cittadini potessero vederli «e rigare dritto». Ricordo Arpaio che raccontava fiero di essere stato il primo a incatenare le donne. Ricordo le lacrime di Lisa che, riconosciu­ta e chiamata dal figlio di 5 anni, aveva fatto finta di non sentire. La colazione di cereali spacca-denti, il panino con la mortadella scaduta a pranzo, i fagioli «morte rossa» a cena. «Spendiamo più per nutrire i cani che per i detenuti», mi disse ridendo questo ex poliziotto di Brooklyn in pensione, figlio di immigrati irpini diventato incubo dei migranti. La dura vita nella tendopoli – che nei proclami doveva scoraggiar­e il crimine: ci venivano portati in «visita di istruzione», e incatenati e costretti a mangiare il rancio, anche gli alunni delle elementari e delle medie – non ha mai funzionato, dicono le statistich­e della Contea, da deterrente. In compenso, era la perfetta vetrina di propaganda e populismo – l’antidoto alla bufala delle «prigioni a 5 stelle» – di un ambizioso uomo politico che non a caso è entrato nelle grazie del presidente. «Mi adorano perché dicono che risparmio il denaro dei contribuen­ti», mi disse, «ma la verità è che, se anche avessi un miliardo di miliardi, lascerei le tende e la mortadella scaduta». Per la cronaca, la tendopoli era riservata a detenuti destinati a pene inferiori all’anno di reclusione, e per il 70% in attesa di giudizio. Non fosse stato graziato, Arpaio magari sarebbe finito qui.

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