ME LA IMMAGINO NONNA IN FORMA, AL BAR.
OGNI TANTO SI FA UN BEL WHISKY»
Quando, a fine chiamata, scopriamo di abitare a un solo isolato di distanza e io confesso di averla vista spesso nel ristorante all’angolo, Elisabeth Moss non ha dubbi: «La prossima volta fermati e salutami, mi raccomando». Ho come l’impressione che sia sincera. Siamo al telefono, è agosto, ma la Hollywood in gara per gli Emmy Awards non è in ferie. Sta sparando le ultime cartucce promozionali a Los Angeles, dove il 17 settembre andrà in scena la premiazione.
A 35 anni, Elisabeth è arrivata alla candidatura numero otto e, salvo imprevisti, il premio come migliore attrice in una serie drammatica è di diritto suo. «Non ho preparato nessun discorso: dovessi salire sul palco, improvviserò». Delle 7 candidature precedenti, 6 erano per la Peggy Olson di Mad Men. L’altra, nel 2013, era per Top of the Lake, la serie australiana diretta da Jane Campion che, dopo una pausa di quattro anni, torna ora con una nuova stagione, China girl, presentata al Festival di Cannes. Questa volta tocca a The Handmaid’s Tale, già trasmessa negli Stati Uniti e in arrivo in Italia a settembre su TimVision. Tratta dal romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, è ambientata in un’America diventata una teocrazia (chiamata Gilead): gli omosessuali vengono impiccati e le donne sono private di ogni diritto, dal voto alla lettura e alla possibilità di avere un conto corrente. Quelle fertili sono schiave, violentate una volta al mese dal loro padrone per ripopolare il Paese. La serie giusta al momento giusto, insomma, tanto da rendere Offred, il personaggio interpretato da Moss, un’icona della resistenza femminista. In giugno un gruppo di donne che protestava contro i tagli annunciati da Trump a Planned Parenthood, il nome sotto cui si riuniscono le associazioni che danno assistenza gratuita in caso di aborto, si sono presentate davanti al Congresso vestite come nella serie Tv: «Fertilità, riproduzione, diritti delle donne e degli omosessuali: i temi interessano tutti, per questo la fiction è così importante». Californiana, figlia di musicisti, Moss è cresciuta dentro Scientology. Non ne parla con la stampa, ma di recente ha difeso la scelta su Instagram. Rispondendo a chi paragonava Scientology a Gilead ha scritto: «Non è vero. La libertà di religione è importante per me». «È l’unico neo di una biografia perfetta», ha scritto di recente il New York Magazine, intendendo che, a parte questo, è sulla buona strada per diventare una grande star, anche dell’impegno civile.
Le riprese di The Handmaid’s Tale sono iniziate prima delle elezioni Usa. L’atmosfera è cambiata sul set dopo l’8 novembre? «Le elezioni ci sono state mentre stavamo girando gli episodi quattro e cinque. E sì, dopo l’8 novembre sul set è piombato un senso di solennità che prima non c’era. Diciamo che le cose si sono fatte più personali: siamo tutti umani e cittadini».
Anche guardare una serie Tv può essere considerata una forma di attivismo? «Vedere eroi ed eroine sopravvivere e superare difficoltà e situazioni nelle quali ci potremmo trovare anche noi è una fonte di ispirazione e forza». A me piace guardare le puntate tutte insieme, un episodio dietro l’altro. Le confesso però che con questa non ce la faccio. «La capisco. La serie è pensata per essere vista nel tempo, un episodio a settimana. Per i temi che tratta va guardata, discussa. Di solito anche io, come lei, ho la tendenza ad abbuffarmi». Le scene che per lo spettatore risultano così intense e difficili da guardare sono state anche le più difficili da girare? «Quello che metto di intenso nel personaggio sta lì, sullo schermo. Quando una scena è finita, non ci sono più, esco dal personaggio e sono me stessa. È il mio modo di recitare. Ci sono momenti tra i ciak in cui ho bisogno di solitudine e di concentrazione, ma ci sono altre volte in cui posso scherzare fino all’ultimo secondo. In generale, cerco di non rimanere troppo impantanata emotivamente». Forse «stare nel personaggio» è una cosa che possono permettersi gli uomini. Le attrici, finita una scena, devono spesso tornare a casa a fare le madri o le mogli. «Reese Witherspoon mi raccontava di un attore con cui ha lavorato che per entrare nel ruolo ha passato sei settimane in una baita tra i boschi, isolato da tutti. Quando l’ha raccontato, gli ha risposto: “Io ho tre figli e una casa di produzione, al massimo posso arrivare sul set 10 minuti prima”». Una delle frasi più citate del libro è: «Non abbiamo alzato la testa dai nostri telefonini fino a quando non era troppo tardi». «Siamo tutti un po’ colpevoli. È normale rimanere intrappolati nelle proprie vite, ma è importante avere una visione più grande, preoccupandosi di quello che succede non solo nel tuo Paese, ma anche nel resto del mondo. Le cose non peggiorano mai dal giorno alla notte, ma lentamente. La situazione negli Stati Uniti non è cambiata di colpo, ci sono stati dei segnali, ma li abbiamo ignorati. Grazie al cielo ora molte persone si stanno svegliando, sono più attente». Le prime a rispondere sono state le donne: è perché sono abituate a combattere? «O forse perché i diritti a rischio sono proprio i nostri, assieme a quelli della comunità Lgbtq e delle minoranze». Lei si definisce femminista. Come lo è diventata? E quanto è importante avere dei modelli da seguire quando si sta crescendo? «Mia madre è sempre stata la figura di riferimento, il mio modello comportamentale. Nella mia famiglia non c’è mai stato alcun dubbio che io, in quanto femmina, potessi fare tutto ciò che volevo fare. Per me l’idea che le donne non abbiano le stesse opportunità degli uomini è un concetto insensato». Interpretare Peggy in Mad Men le è servito a comprendere più a fondo il percorso dell’emancipazione femminile? «Mi è servito a capire le condizioni di lavoro delle donne negli anni ’60: ero una ventenne, fu abbastanza scioccante scoprire come venivano trattate allora». Anche Top of the Lake è una serie femminista. Non fa molte cose leggere: è così che intende la vita dell’attrice, come qualcuno che affronta i temi sociali? «Voglio intrattenere e raccontare storie, ma se c’è l’occasione di affrontare temi che mi stanno a cuore è ancora meglio. Cerco sempre di portare qualcosa di me nel personaggio che interpreto. Sono una 35enne che vive in questo Paese e i temi che trattiamo toccano tasti molto personali. I diritti delle donne sono la causa più importante per cui voglio combattere». Mentre girava Mad Men si rendeva conto che Peggy stava diventando un’icona femminista? «È stata una cosa inaspettata e graduale di cui sono molto orgogliosa. Ho sempre sognato di raccontare storie di donne forti, complicate e vulnerabili allo stesso tempo, donne vere, insomma. E credo che molte donne si siano riviste in Peggy, così come oggi molte si rivedono in Offred». Cosa fa Peggy adesso secondo lei? È sposata? O dirige un’azienda? «Avrebbe quasi 80 anni. Me la immagino in forma, ancora con Stan e con nipoti, una di quelle nonne che stanno sedute al bar e ogni tanto si fanno un bel whisky». A maggio il film di cui è protagonista, The Square, ha vinto la Palma d’Oro. Dalla televisione a Cannes: il suo percorso è inusuale. «Vero, ma è anche figlio dei tempi. La televisione sta vivendo un’età d’oro che invece di esaurirsi si sviluppa ogni giorno di più. Tutto è nato grazie agli scrittori. Sono stati i primi ad arrivare. Poi siccome il materiale migliore era in Tv, sono arrivati anche gli attori e i registi. Io semplicemente mi ci sono trovata in mezzo: a 17 anni ero nel cast di West Wing (era Zoey, la figlia del presidente americano, ndr)». Si conferma modesta, e dalla fama di gran lavoratrice. «Vengo dalla danza classica. Il balletto allena l’autodisciplina: nulla nella vita ti viene regalato, ma tutto si ottiene tramite il duro lavoro e la fatica, anche fisica. I miei genitori erano musicisti, anche loro mi hanno insegnato che se vuoi diventare brava, l’unica strada è faticare, analizzare te stessa e migliorarti, ogni giorno un po’ di più».