Vi presento gli anni ’90
Ex cantante dei La Crus, MAURO ERMANNO GIOVANARDI torna con un disco generazionale di cover che omaggia una certa rivoluzione rock italiana. Eredi di oggi? Non pervenuti,
La prima notizia è che Mauro Ermanno Giovanardi (ex La Crus) ha fatto un nuovo disco da solista: si chiama La mia generazione e ha la partecipazione di ospiti come Manuel Agnelli, Rachele Bastreghi e Samuel. La seconda è che 12 delle 13 tracce dell’album sono cover di brani anni ’90 del repertorio di autori come Afterhours (Non è per sempre), Marlene Kuntz (Lieve), Subsonica (Lasciati), Neffa (Aspettando il sole), Casino Royale (Cose difficili). «Anche se nessun brano è mio», dice Giovanardi, «questo è senza dubbio il disco più difficile e faticoso che ho fatto nella mia carriera». Ma come? È più difficile fare un album di cover che uno di inediti? «Può sembrare un paradosso, ma sì. Fare cover può essere molto semplice o molto complesso. Se si prendono le canzoni di un altro e ci si canta sopra è facile: basta imparare i pezzi e in una settimana si fa tutto. Ma io ho fatto un’altra cosa». Che cosa ha fatto? «Ho provato a fare mio ogni brano, a crearne una versione credibile, nuova e a suo modo importante, che tenesse botta con l’originale e che non lo scimmiottasse né lo vilipendesse, che avesse una sua personalità». Come ha scelto le canzoni da mettere nell’album? «Alcune erano in scaletta fin dal primo giorno, altre sono rimasto in dubbio a lungo, altre non le volevo mettere, come Aspettando il sole, perché è un rap e io non faccio rap… Ma la regola base era che fossero canzoni capaci di raccontare la storia di quello che è successo nella musica italiana negli anni Novanta». E che cosa è successo? «Una rivoluzione: un gruppo di musicisti – tra cui noi La Crus, ma anche i Subsonica, gli Afterhours, i Ritmo Tribale, i Bluvertigo – prese tutto quello che c’era stato fino a quel momento, fatto di cantautorato o di canzoni sentimentali in stile Gino Paoli, e lo spedì in soffitta, portando in Italia un suono nuovo, libero, figlio del rock inglese e americano. La nostra era musica nuova, rock e, per la prima volta, era in italiano». Perché cantare in italiano è stato importante? «Perché cantando in italiano potevamo stabilire con chi ci ascoltava un contatto che solo la lingua consente. Vedevamo una reazione immediata nelle facce del pubblico. E non a caso il nostro successo, come generazione di musicisti, cominciò proprio quando abbandonammo l’inglese per l’italiano: le vendite crebbero, il pubblico aumentò, le etichette presero a credere in noi». Ora però gli anni ’90 sono finiti: che cosa è rimasto di quella rivoluzione nella musica di oggi? «Poco, purtroppo. Sono ricomparsi i testi in inglese. E il rock italiano, mi spiace, ma non si può fare in inglese».