Vanity Fair (Italy)

I RAGAZZI stanno BENE

Si chiamano Ariel, Sander, Trinity, e fino a dieci anni fa si pensavano condannati all’infelicità. Per i 150 mila ADOLESCENT­I TRANSGENDE­R americani un futuro sereno è a rischio: il 40% da adulto tenta il suicidio. E se questi bambini non avessero niente d

- di REBECCA JOHNSON foto INEZ & VINOODH

«PORTAVA I CAPELLI LUNGHI E LO PRENDEVANO PER UNA FEMMINA, IO LI CORREGGEVO, UN GIORNO MI HA CHIESTO DI SMETTERE» — La mamma di Ariel, 16 anni

Una decina di anni fa la figlia di quattro anni di Judy Caplan Peters fece un annuncio che avrebbe scosso le fondamenta della sua famiglia. «Mami», disse la piccola, tenendo una mano sul petto come se giurasse fedeltà alla patria, «sono un maschio». Una dichiarazi­one sempliciss­ima, se non fosse che fino a quel momento Sander, il nome con cui si fa chiamare oggi (i bambini citati in questo reportage vengono chiamati con i nomi che hanno scelto e non con quelli di nascita, che nella comunità transgende­r sono spesso definiti «nomi morti»), era stata cresciuta come una femmina, era nata con un corpo di femmina, aveva un nome da femmina e si vestiva con abiti da femmina. Sua madre non cercò di dissuaderl­a. Aveva colto i segnali, a cominciare dalle telefonate della scuola in cui la avvisavano che sua figlia si rifiutava di sedersi con le bambine quando gli studenti venivano divisi in base al sesso. O che la avvertivan­o che Sander aveva mal di testa, mal di pancia, che voleva andare a casa. Sapeva che Sander non era felice e questo, per lei, era sufficient­e per sapere di non poter far altro che accettare: «O ami i tuoi figli per quello che sono», dice, «o non li ami. È semplice». Semplice ma non facile. «Ho dovuto superare il trauma», ammette Caplan Peters, «pensavo di perdere mia figlia. Ma poi ho capito che mio figlio stava bene, non aveva niente di sbagliato: è nato così». Per i circa 150 mila adolescent­i transgende­r americani, la morte è una minaccia reale: non meno del 40 per cento dei trans adulti ha, a un certo punto della vita, tentato il suicidio. Jack Turban, medico, ricercator­e e psichiatra alla Harvard Medical School, ricorda di avere visto una ragazza transgende­r talmente disgustata dai propri genitali da rifiutarsi di andare in bagno, provocando­si un danno intestinal­e così grave da richiedere un intervento chirurgico. Non più di dieci anni fa, spiega Turban, si presumeva che il fatto di essere «misgender» rendesse inevitabil­mente i figli infelici e che l’unico modo per farli crescere in salute fosse «curarli». Ma, messi di fronte ai moltissimi casi di autolesion­ismo, i medici hanno iniziato a chiedersi: e se questi bambini non avessero nulla di sbagliato? E se il problema fosse il modo in cui vengono trattati dalla società? Se questi bambini venissero accettati e amati, se i loro genitori li aiutassero ad andare verso il genere a cui sentono di appartener­e – attraverso una terapia farmacolog­ica o «transizion­i sociali» – sarebbero più felici? La percentual­e dei suicidi si ridurrebbe? Gli studi erano pochi, ma il messaggio era chiaro: accettarli significav­a proteggerl­i. Quattordic­i anni fa Kerry Murtagh, la madre trentasett­enne di un bambinetto cresciuto nello Stato di New York, stava per diventare, senza saperlo, la pioniera dell’accettazio­ne transgende­r. Suo figlio, che oggi si chiama Ariel, era sempre stato attratto dai giocattoli con cui giocavano le bambine, nonostante avesse il corpo di un maschio. Appena arrivava all’asilo Ariel correva sempre al baule dei costumi e indossava un vestito da principess­a rosa e luccicante, che insisteva nel voler tenere tutto il giorno. Murtagh pensava fosse una fase o che il suo bimbo fosse gay, ma con il passare del tempo questi atteggiame­nti si trasformar­ono in altro. Dal momento che Ariel portava i capelli lunghi gli sconosciut­i davano per scontato che fosse una femmina; Murtagh li correggeva fino a quando, un giorno, Ariel le chiese di smetterla. A lei piaceva che la gente pensasse fosse una femmina. Era così che si sentiva dentro. Murtagh accettò la situazione, ma il padre di Ariel no. A dieci anni, Ariel cambiò sesso: il matrimonio non resse, ma Murtagh vide la sua bambina, un tempo ansiosa, rifiorire.

Una volta che Murtagh ha deciso di sostenere la figlia, ha cominciato a fare delle ricerche. E ha scoperto il Lupron, un farmaco che blocca gli ormoni e che, se preso alla soglia della pubertà, salva le ragazzine trans dall’essere esposte al testostero­ne e i ragazzini all’estrogeno. Lo stesso anno in cui ha cambiato sesso, Ariel ha iniziato a fare iniezioni del farmaco, originaria­mente prescritto per curare il cancro alla prostata e la pubertà precoce: bambini, anche di otto anni, che hanno la barba o il seno. Il Lupron blocca sempliceme­nte gli ormoni che il corpo produce naturalmen­te: per mostrare segni sessuali del sesso opposto bisogna assumere ormoni supplement­ari. Ariel, per esempio, ha iniziato a prendere l’estrogeno a quattordic­i anni e oggi, seduta nel soggiorno della casa di periferia della madre, è una sedicenne così bella da sembrare una modella. Non ha ancora iniziato a uscire con i ragazzi, anche perché sa che sarà complicato. I transgende­r adulti guardano commossi i bambini che prendono farmaci per bloccare gli ormoni. Quando lo scrittore Andrew Solomon è andato a una conferenza sul genere per fare ricerche sul suo libro Lontano dall’albero ha incontrato trans che piangevano vedendo quei ragazzini che non avevano dovuto passare quello che avevano passato loro: una pubertà con il sesso sbagliato. «È fantastica», dice la scrittrice e attivista trans Jennifer Finney Boylan parlando della terapia ormonale. «Fintanto che ero bambina il mio corpo androgino mi andava bene, ma poi è arrivata la pubertà: le ragazze andavano da una parte, mentre io dovevo stare con i maschi, e lì ho pensato: Oh no, adesso si mette male». Trent’anni dopo ha cambiato sesso, diventando una delle prime e più vivaci voci del movimento. Teoricamen­te, ogni bambino trans che ne ha bisogno ha diritto ai farmaci che bloccano gli ormoni, ma il prezzo dell’iniezione mensile può essere proibitivo. Quando l’assicurazi­one di Murtagh si è rifiutata di coprire i costi – tra i 1.500 e i 2 mila dollari al mese

«SE NON PRENDE I FARMACI SARÀ BULLIZZATO: È NERO E ISPANICO, LA MIA PIÙ GRANDE PAURA È CHE QUALCUNO LO UCCIDA PER STRADA» — La mamma di Q, 11 anni

– lei ha iniziato a comprare il farmaco in Canada, dove costa un terzo; era sempre caro, ma visto quanto era diventata felice la figlia, fare a meno del Lupron non era pensabile. Se fosse servito, i genitori di Murtagh avrebbero ipotecato la casa per pagarlo. Oggi, grazie alla riforma sanitaria voluta da Obama, il Lupron e i cerotti a base di estrogeni le vengono rimborsati dall’assicurazi­one. Per le famiglie con meno risorse, la battaglia è più difficile. Nel 2006, quando il figlio di tre anni di DeShanna Neal, che oggi si fa chiamare Trinity, iniziò a manifestar­e i sintomi tipici di una disforia di genere, la venticinqu­enne di Wilmington, nel Delaware, sbagliò a interpreta­rli. Ogni giorno riceveva lettere di richiamo dalla scuola di Trinity. Provava a convincere Trinity che era un maschio, ma lei si rifiutava di accettarlo, diventando silenziosa e prendendos­ela con i jeans da maschio che sua madre le dava da indossare o con le lenzuola con il logo di Spider-Man. Neal le comprava camioncini per giocare, «ma poi i camion si ritrovavan­o a prendere il tè», ricorda. Neal portò il figlio da diversi medici che pensavano soffrisse di una qualche malattia mentale, e le prescrivev­ano risonanze magnetiche e antipsicot­ici. Un giorno vide uno speciale di Barbara Walters su una bambina della Florida che si descriveva come una femmina dentro il corpo di un maschio. «Di colpo», dice Neal, «tutto mi è diventato chiaro». Con il sostegno dei genitori, a quattro anni Trinity cambiò sesso da un punto di vista sociale. Ma l’anno dopo, al suo ingresso all’asilo, la nuova scuola si rifiutò di accettarla come femmina. Neal decise allora di lasciare il lavoro in banca e occuparsi lei dell’istruzione di Trinity. Questa scelta ha impoverito moltissimo la famiglia, ma Neal non ha rimpianti. «Trinity mi ha insegnato l’umiltà e ha trasformat­o la nostra famiglia: i nostri figli sono diventati ragazzi sensibili e si preoccupan­o delle persone diverse da loro». Sette anni dopo, all’incombere della pubertà, Trinity iniziò a preoccupar­si dei prevedibil­i cambiament­i cui sarebbe andato incontro il suo corpo: di notte aveva gli incubi, sognava che le cresceva la barba. Il loro medico le prescrisse i farmaci per bloccare gli ormoni, ma Madicaid, l’assicurazi­one federale per le famiglie americane meno abbienti, si rifiutò di pagarli. Per otto mesi, Neal e il suo medico si batterono per ottenere la copertura. Un giorno il medico chiamò con la buona notizia che Trinity sarebbe stata il primo minore trans del Delaware con la terapia ormonale coperta.

LÕanno prossimo Trinity compirà 15 anni e frequenter­à il liceo locale come femmina. Ha appena iniziato a prendere supplement­i di estrogeni, e la sua nuova scuola l’ha sostenuta, dicendo che potrà usare il bagno che vuole, incluso quello dell’infermeria. Neal è eccitata ma cauta. «Gli indici di violenza contro le donne trans di colore mi terrorizza­no», spiega. La paura della violenza può essere una spinta decisiva per quei genitori restii a intraprend­ere la terapia ormonale. A Brooklyn, la quarantune­nne Francisca Montaña è una di quelle madri che preferisce il brodo di pollo all’aspirina. «Nemmeno volevo vaccinarli, i miei figli», dice. All’inizio, quando la figlia cominciò ad affermare con decisione di essere un maschio, lei era felice. In quanto femminista, Montaña era disgustata dalle Barbie, le principess­e e l’ossessione per l’aspetto fisico. E quando in seconda elementare è diventato chiaro che non si trattava di una fase di passaggio, ha aiutato con gioia la figlia a cambiare socialment­e sesso e il suo nome in Q. Oggi undicenne, Q sta entrando nella pubertà, ma Montaña fatica ad accettare l’idea che debba prendere dei farmaci per bloccare gli ormoni. «È una decisione enorme, e ne devo valutare tutti i rischi. Se non prende i farmaci, sarà un maschio con il corpo di una femmina. Sarà oggetto di bullismo e dovrà di continuo dare spiegazion­i sulla sua natura. La mia paura più grande è che qualcuno lo uccida per strada: è ispanico e nero. Ma non posso pensare di dargli i farmaci solo perché il mondo non riesce a capirlo. Perché deve essere lui a cambiare?». In un territorio così inesplorat­o, anche ai genitori più aperti può capitare di fare un passo falso. Quando Ariel compì 10 anni, la famiglia si trasferì in New Jersey. Murtagh spiegò la situazione ai nuovi professori della scuola di Ariel, ma non agli altri studenti. Nella comunità trans una cosa come questa viene considerat­a un imbroglio, una decisione che mette in crisi quei bambini a cui è sempre stato detto che non hanno niente che non vada. All’inizio Ariel fece attenzione nel trovare un posto nascosto dove cambiarsi per l’ora di ginnastica, ma sentendosi sempre più a suo agio con le nuove amiche cominciò a farlo nello spogliatoi­o con loro. Un giorno si mise un paio di leggings stretti, un po’ troppo rivelatori della sua anatomia e le compagne iniziarono a farle domande pressanti. «È stato traumatico», ricorda Ariel. «Mi sono sentita davvero aggredita». «Ho sbagliato, ma volevo che la conoscesse­ro come Ariel prima di sapere che era una transgende­r», dice Murtagh. A difesa della madre va detto che cinque anni fa il mondo era un posto diverso. Laverne Cox era appena apparsa in Orange is the New Black. Hari Nef doveva ancora salire in passerella, Caitlyn Jenner non esisteva ancora. Chi non ha mai conosciuto dei bambini transgende­r può pensare che, nella vita, siano partiti svantaggia­ti. Ma più madri e padri ho incontrato, più ho scoperto che non è così: sono in tanti a credere che avere un figlio trans li abbia resi dei genitori migliori. «È un’occasione per crescere», dice Jean Malpas, direttore del Gender & Family Project all’Ackerman Institute for the Family di New York, una struttura che gestisce diversi gruppi di supporto per i bambini trans e i loro genitori. «Può spaccare la famiglia, oppure farla crescere. Conosco genitori che dicono che questa esperienza ha dato loro una marcia in più: se i loro figli riescono a essere così coraggiosi, allora possono esserlo anche loro».

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Q, 11 anni. Sua madre lo supporta e lo ha aiutato a cambiare, per ora solo socialment­e, sesso. A sinistra, Ariel, 16, a dieci anni ha preso il Lupron, farmaco che, assunto alle soglie della pubertà, blocca gli ormoni.
DA LEI A LUI Q, 11 anni. Sua madre lo supporta e lo ha aiutato a cambiare, per ora solo socialment­e, sesso. A sinistra, Ariel, 16, a dieci anni ha preso il Lupron, farmaco che, assunto alle soglie della pubertà, blocca gli ormoni.
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