Vanity Fair (Italy)

VINICIO MARCHIONI MEZZO NUDO A VENEZIA

A Venezia con un nuovo film, VINICIO MARCHIONI ha dovuto interpreta­re una scena che lo ha molto imbarazzat­o. Ma la storia lo ha «contagiato». Anche perché gli ha ricordato quella volta che da piccolo...

- di MARINA CAPPA foto ALESSANDRO PIZZI

Può andare se cucina lui una pasta con il pesto pantesco? Da bere, va bene l’acqua che ha preparato con zenzero e limone? In un agriturism­o della campagna toscana, adiacente a una villa medicea dove stanotte girerà nei panni di un grande chef, Vinicio Marchioni si muove tranquillo fra i fornelli, forte della consuetudi­ne della sua Casa, il ristorante che tempo fa ha aperto a Roma. Per lui, che con il Freddo di Romanzo criminale è diventato famoso, questa atmosfera familiare resta la migliore delle vite. Così come la vacanza ideale è quella che ha appena fatto: una settimana in camper con Milena Mancini, la moglie anche lei attrice, e i due figli, Marco e Marcello, di 6 e quasi 5 anni, abbarbicat­i a papà che negli ultimi mesi hanno visto poco, perché ha girato un film dietro l’altro. Marcello è anche il nome del personaggi­o che Vinicio presenterà a Venezia, nella sezione Giornate degli Autori, uno dei protagonis­ti del Contagio. Il film, diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, è tratto dal libro di Walter Siti pubblicato nel 2008. Una storia corale (nel cast, anche Anna Foglietta, moglie di Marcello, e Vincenzo Salemme, il professore innamorato di lui) di periferie romane, droga e molto sesso omosessual­e. Il personaggi­o di Marchioni è un ex culturista, e per renderlo bene gli è toccato prendere un bel po’ di chili muscolari. È stato difficile ingrossare? «Tante proteine, tanta palestra e un bel po’ di noia, a dover alzare tutti quei pesi. Però mi dà fastidio vedermi gonfio, così adesso sto ricomincia­ndo a correre la mattina per restringer­mi. Ci vuole un sacco di disciplina, per alzarsi la mattina e fare 40 minuti di corsa a stomaco vuoto». D’altra parte, la dimensione di Marcello è puramente fisica. «Io l’ho sempre visto come solo corpo. All’interno non c’è niente, è come un ragazzino che cerca di sopravvive­re come può ma non ha i mezzi critici per scegliere e allora si fa scegliere». Un’interpreta­zione complicata? «È stato bellissimo. Ho cercato il suo punto di fragilità, la solitudine. Poi è uno che ha enormi manie di autodistru­zione. Mi affascinav­ano i suoi appuntamen­ti con il professore, che finivano a suon di cocaina con un sesso consumato in maniera molto passiva, per poi chiudersi due giorni in casa a smaltire i down». A volte il vuoto totale della testa, l’assenza di pensiero, può essere desiderabi­le. «Credo che ognuno abbia proprie piccole camere oscure dell’anima, che forse è meglio non aprire mai». Le sue quando compaiono? «Quando lavoro tanto e ho bisogno di decomprime­re. E quando sono nervoso, perché io sono uno che implode anziché esplodere. Non riesco a litigare. È una parte di me che non mi piace molto, ogni tanto vorrei scoppiare». Invece che cosa fa? «Per due, tre giorni mi chiudo nello studio, ascolto la mia musica, leggo i miei libri, mi circondo di cose positive e ho bisogno di silenzio». Come fa, con i bambini in casa? «Ho imparato a concentrar­e: 2-3 ore, anziché giorni. Va così anche con lo studio dei film, devo recuperare spazio negli interstizi. Faticoso ma bellissimo». Tornando al Contagio. Nel libro c’è molto sesso... «Nel film non ci sono scene di sesso vero e proprio, anche se una è molto esplicita». Imbarazzi? «Con Salemme neanche mezzo: è un grande profession­ista, non a caso arriva dalla scuola di Eduardo». Aveva mai girato scene omosessual­i? «In teatro, con Kouros. Ero un giovane gay, e c’era una scena di sesso con un bacio lunghissim­o, una cosa strana. Nel Contagio invece l’imbarazzo è stato recitare mezzo nudo. Non ho un buon rapporto con l’immagine mia, non mi guardo mai, non ho foto». Quindi non voleva spogliarsi? «Mi sono vergognato moltissimo. Così il regista, Daniele, mi ha detto: “Ti sei fatto sei mesi di culo per metter su muscoli, è ora che lo fai vedere a tutti”, e per mezz’ora mi ha fatto camminare a torso nudo in mezzo alla troupe». Ma sbaglio, o a teatro aveva già recitato in nudo integrale? «Sì, ma sul palco è diverso: quando inizi non puoi tornare indietro, e ti senti molto più protetto che davanti alla cinepresa. Per Kouros mi ero preparato facendo tutte le prove senza vestiti. Anche lì mi ero un po’ palestrato, ma avevo 15 anni di meno». Lei è cresciuto in una borgata? «Sì, Fidene, Roma nord-est». Assomiglia a quella del film? «L’umanità sì. Ho ritrovato gli stessi occhi, gli occhi dei poveri, di chi fa fatica tutti i giorni. Ci si sente molto soli, lontani da tutto. Però c’è una solidariet­à enorme, un grande cuore. Dove abbiamo girato c’erano gruppi di ragazzini che giocavano nel cortile e una mamma sola a guardarli. Nonostante la globalizza­zione e la trasformaz­ione della società, le periferie non sono cambiate». Droga ne girava molta quando lei era piccolo? «I miei erano i primi anni della cocaina facile, alla portata di tutti. Quello che la vendeva era il tuo vicino, sua mamma ti aveva dato da mangiare... Era impossibil­e avere un pregiudizi­o». È così che si entra nel giro. «Devi essere fortunato. Un amichetto mio a 15 anni mi chiese di tenergli la cocaina perché aveva paura di un controllo. Io ero poco più piccolo, e l’ho fatto. Poi, dipende dallo sport, dalla famiglia, dalla fortuna se non approfondi­sci quella strada e ne scegli un’altra». L’ha anche provata? «Sì, ma mi sono messo tanta paura. Mi ricordo questa sensazione di stare a fare qualcosa che mi avevano insegnato di non dover fare: solo il pensiero che mio padre o mia madre lo scoprisser­o era insopporta­bile». Suo padre è scomparso quando lei aveva 15 anni. Per sua madre sarà stato pesante. «È stata bravissima perché ha puntato tutto

sullo sport, ci accompagna­va a fare allenament­i di calcio, nei campetti più sperduti, si è fatta un mazzo enorme. E molto merito ha la scuola, gli insegnanti. Sono gli incontri che ti cambiano la vita». E gli amici? «I miei erano quelli che potenzialm­ente portavano sulla cattiva strada, ma poi ne ho avuti altri, c’era la squadra...». Era bravo a calcio? «Giocavo bene, però a 22 anni ho smesso perché mi sono fatto male dappertutt­o». Adesso è diventato famoso: abita in centro? «No, in un’altra periferia. La vita di quartiere mi piace, è semplice, ha punti di riferiment­o chiari. Mi trattano come una persona normale: al bar non ci va l’attore, ma Vinicio. Io sono sempre stato dalla parte di quelli che non vincono, e qui mi sembra di respirare un’aria che mi appartiene. Poi penso che per portare in scena un personaggi­o devi stare a contatto con la realtà». Lei però oltre ai film nelle ultime stagioni ha fatto molto teatro: Un tram che si chiama Desiderio, La gatta sul tetto che scotta... «In gennaio debutterà Zio Vanja di Cechov, di cui sono regista e interprete. In teatro avevo già fatto due regie, una era L’eternità dolcissima, che ritorna all’Elfo di Milano». Come sarà il suo Zio Vanja? «Sono partito dal mio senso di fallimento». Perché, si sente fallito? «Non io in particolar­e, ma ho la consapevol­ezza che gli attori della mia generazion­e non arriverann­o mai a punti importanti come quelli che li hanno preceduti. Così, nel mio adattament­o, anziché ereditare una piantagion­e i personaggi ereditano un vecchio teatro pieno di debiti, come ne esistono moltissimi in Italia, e questo si trova in una delle province del terremoto. Perché di questo terremoto bisogna parlare, come di questo immobilism­o, che riguarda tutto il Paese. Se andrà bene, ne farò il mio primo film da regista». I personaggi di Cechov assistono ai fallimenti delle loro vite. Ma anche Marcello è spettatore della propria esistenza. «Secondo me, esistono moltissime persone come Marcello, che vedono passarsi accanto la vita, lasciando fare agli altri, senza essere protagonis­ta di se stessi». Dipende dalla paura? «Molto credo che faccia l’ignoranza. Quando nasci in un posto dove nel raggio di chilometri trovi solo un bar, la biblioteca non c’è, il cinema chissà dov’è, quadri non parliamone: come fai ad avere una coscienza se nessuno ti insegna che c’è un altro mondo, esistono altre possibilit­à? C’è bisogno di cultura, altrimenti ti puoi solo drogare». Ma i personaggi di Cechov non sono nati in periferia. «Eppure non riescono a prendere in mano la vita, aspettano sempre qualcosa dall’esterno che li salvi. Non sono “qui e ora”». Che cosa significa essere «qui e ora» per un attore? «Con il teatro è più semplice: entri nella parte, inizi e vai avanti per tutto lo spettacolo. Con il cinema è più difficile e ci vuole tanta leggerezza». Leggerezza? «Con il teatro, soprattutt­o agli inizi, ti senti al centro del mondo. Ma non è vero un cazzo. Sul set all’inizio mi sembrava insopporta­bile che fossero gli altri a decidere: tu non sai quello che il regista vede sui monitor, come sarà il montaggio, ti affidi e per questo ci vuole leggerezza». Adesso che ha scoperto la leggerezza, quanti film ha in uscita? «Erano tre anni, da Tutta colpa di Freud, che non lavoravo per il cinema, mi sono rifatto. C’è The Place di Paolo Genovese, che uscirà il 28 dicembre, ispirato a una serie americana, con un uomo che risolve i problemi di chi gli si rivolge ma in cambio affida loro altri compiti. Per dire: io ho un figlio leucemico, e per salvarlo mi chiede di uccidere una ragazzina. C’è un fantasy per famiglie, Ötzi e il mistero del tempo, che ho fatto perché posso andare a vederlo con i bambini. Qui giro Palato assoluto di Francesco Falaschi e sono uno chef uscito dal carcere che va in una comunità di ragazzi con sindrome di Asperger: uno è bravissimo e io lo accompagno a fare un contest gastronomi­co. A settembre faccio l’opera prima di Simone Catania: un’amicizia on the road, con Marco D’Amore e una forte tematica gay. Poi ci sarà un’altra opera prima in Svizzera». Con un carnet così pieno, quando torna a casa riesce davvero a staccare? «Ho imparato a non affezionar­mi alle cose, un ruolo non me lo porto dietro. In casa non ho ricordi, sceneggiat­ure o foto di scena. Se devi lasciare una traccia lo fai con i film, gli spettacoli, la memoria di chi ti ha visto. Io mi tengo quello che ogni esperienza mi ha insegnato. Anche quelle brutte». Per esempio? «Cavalli, presentato proprio a Venezia: mi ero quasi spezzato e il film non era piaciuto. Speriamo che stavolta vada meglio».

«NON RIESCO A LITIGARE, E NON MI PIACE. OGNI TANTO VORREI SCOPPIARE»

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 ??  ?? DAL LIBRO DI SITI Vinicio Marchioni, 42 anni, è protagonis­ta del Contagio, che il 1° settembre viene presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia. Il film uscirà in sala il 5 ottobre.
DAL LIBRO DI SITI Vinicio Marchioni, 42 anni, è protagonis­ta del Contagio, che il 1° settembre viene presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia. Il film uscirà in sala il 5 ottobre.
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Nel Contagio, diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Marchioni ha una storia con Vincenzo Salemme.
IO E IL PROFESSORE Nel Contagio, diretto da Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Marchioni ha una storia con Vincenzo Salemme.
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