Dedicato alle donne
Le origini cherokee, la figlia, la politica. Nel nuovo album TORI AMOS racconta se stessa. E corre per l’Oscar cantando le vittime di violenze (come lei)
Un bravo autore deve saper stare in silenzio e ascoltare tutto ciò che gli sta intorno». Tori Amos, inconfondibile chioma rossa, pianoforte e testi che sembrano romanzi, è tra le voci più significative del cantautorato femminile. Native Invader è il titolo del nuovo album: lo porterà in Italia con un’unica tappa al Teatro Arcimboldi di Milano il 17 settembre. Registrato nello studio del marito e produttore inglese Mark Hawley in Cornovaglia, Amos dice di averlo scritto nel giro di pochi mesi perché «le Muse», come le chiama lei, non potevano aspettare: «È come se lo avessero innescato a mia insaputa». Complici un viaggio tra le Smoky Mountains del Tennessee e le Blue Ridge Mountains del North Carolina alla ricerca delle proprie origini cherokee («volevo ascoltare da vicino la voce di mio nonno») e, soprattutto, le ultime elezioni presidenziali. «Dopo l’8 novembre ho avvertito un grande cambiamento di energie, tutte molto diversificate ed estremizzate tra gioia e dolore. Così ho voluto raccontare ciò che sentivo». Se di politica parla in termini super partes, facendo ben attenzione a non pronunciare mai il nome del presidente degli Stati Uniti perché «bisogna ignorare il sensazionalismo di questo mondo polarizzato e non farci distrarre dalle cose che contano davvero», le 15 tracce di Native Invader toccano sia temi personali, come la malattia della madre, sia quelli universali del global warming. Come in Up The Creek, in cui duetta con la figlia Natasha di 17 anni: «Ha una voce bellissima. Ma se canta quel brano è perché il tema le sta molto a cuore. In America le multinazionali hanno girato le spalle agli scienziati e sostengono chi inquina per scopi puramente economici. Le nuove generazioni lo sanno: “Juliana Vs Us” sono un gruppo di teenager che denunciano il governo americano perché non sta proteggendo abbastanza il pianeta. Ma i giornali non parlano di queste cose». Co-fondatrice di Rainn, la più grande organizzazione anti-stupro degli Stati Uniti, e a sua volta vittima di una violenza a 21 anni, l’artista americana è anche la favorita ai prossimi Oscar grazie a Flicker, il brano scritto per il documentario Audrie and Daisy sul problema delle violenze sessuali nelle scuole superiori. «Volevo onorare le vittime, riconoscerle come Fenici che risorgono dalle ceneri ed esprimere la colpevolezza della città in cui vivevano. Ma spiegare una canzone resta sempre difficile: comunico meglio se metto tutto in musica».