Vanity Fair (Italy)

La Cancellier­a della porta accanto

- di KATI MARTON foto HERLINDE KOELBL

I suoi amici dicono che «non bisogna aspettarsi che salvi il mondo». Ma ANGELA MERKEL, che ora punta a un quarto mandato, è pronta a combattere per la difesa della «dignità umana». Contro Trump, che non le ha stretto la mano. E contro Putin, che voleva spaventarl­a con un cane

Tra il nazionalis­mo di Donald Trump e il populismo autoritari­o di Vladimir Putin, molti vedono Angela Merkel come l’ultimo vero leader democratic­o rimasto. Ma, nell’era digitale, dodici anni come capo di Stato sono un periodo molto lungo, e ora Merkel mira ad altri quattro. Ha resistito più a lungo di Bush e Obama, che però non potevano restare in carica oltre otto anni, e di Blair, Cameron, Sarkozy e Hollande. Solo la sua nemesi, Putin, è ancora al potere.

È alla fine dell’estate 2015 che la Cancellier­a trasforma drasticame­nte l’immagine che la gente ha di lei. Nota per la sua calma olimpica (merkeln significa «ritardo»), Angela Merkel non esita un istante, e permette a centinaia di migliaia di siriani e altri profughi di rifugiarsi in Germania. «Possiamo farcela», dichiara. Da un giorno all’altro, arriva in Germania quasi un milione di uomini, donne e bambini stremati. Non è solo Merkel a stupire il mondo: lo fanno anche le migliaia di tedeschi che vanno ad accogliere i nuovi arrivati. Nel luglio 2015, durante un incontro Tv con un gruppo di studenti, Reem, un’adolescent­e palestines­e, si era rivolta alla Cancellier­a in un tedesco impeccabil­e: «È molto doloroso guardare le altre persone che si godono la vita, e non poter fare lo stesso. Non so se posso stare qui, o quale sarà il mio futuro». «La politica può essere molto dura», aveva risposto Merkel, con le telecamere che inquadrava­no Reem in lacrime mentre la Cancellier­a mormorava un «Oddio» nel microfono, e poi attraversa­va il palco per raggiunger­e la ragazzina e accarezzar­le la spalla. La donna più potente del mondo non sembra potente ma fragile, come la profuga in lacrime. Più tardi quell’estate, Angela Merkel rimane sconvolta da immagini che non si aspettava di vedere nell’Europa del XXI secolo: uomini, donne e bambini confinati dietro il filo spinato dalle guardie armate lungo la frontiera dell’Ungheria, membro dell’Unione europea. «Sono cresciuta guardando un muro», dice a Viktor Orbán, il primo ministro ungherese, parlando del Muro di Berlino. «Finché vivo, non voglio vedere altre barriere in Europa».

Le scelte della Cancellier­a sull’accoglienz­a sono state molto rischiose. Nella comunità internazio­nale, alcuni hanno elogiato la sua iniziativa. David Miliband per esempio, ex segretario di Stato britannico per gli Affari esteri e ora presidente dell’Internatio­nal Rescue Committee, l’ha definita «una vera e propria prodezza». Altri, invece, non erano d’accordo. Il suo vecchio amico, l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger, le ha detto: «Dare rifugio a un profugo è un atto umanitario. Accogliern­e un milione vuol dire mettere a repentagli­o la civiltà». Ma lei gli ha spiegato: «Non avevo scelta». Le violenze scoppiate la notte dell’ultimo dell’anno 2015, quando a Colonia centinaia di uomini prevalente­mente mediorient­ali hanno assalito decine di donne, e l’attacco del camionista tunisino che ha travolto i passanti al mercatino di Natale di Berlino nel 2016 hanno alimentato l’ira degli oppositori. Nel novembre 2009, i senatori e i rappresent­anti degli Stati Uniti avevano accolto Merkel con un lungo applauso, quando aveva presenziat­o a una speciale riunione congiunta del Congresso. «La dignità umana è inviolabil­e», aveva detto lei in quella sede. «Questa è stata la risposta all’uccisione di sei milioni di ebrei, all’odio, alla distruzion­e e allo sterminio di cui la Germania si è macchiata in Europa e nel mondo». Un anno e mezzo dopo, era stata invitata di nuovo a Washington per essere insignita della Medaglia presidenzi­ale della libertà, e definita dal presidente Obama «la prima donna cancellier­e nella storia e una voce chiara a difesa dei diritti dell’uomo». Quando è tornata a Washington nel marzo 2017, Merkel non è stata invitata a parlare al Congresso, né a cena alla Casa Bianca, né a giocare a golf a Mara-Lago. Il suo primo incontro con il presidente Donald Trump è stato un veloce scambio di vedute sul commercio, i finanziame­nti Nato e l’Isis. Un’immagine della visita è diventata virale: Trump che sembra ignorare l’invito di Merkel a stringersi la mano davanti ai fotografi. Le loro opinioni divergenti sul commercio e sull’immigrazio­ne limitano i campi in cui possono trovarsi d’accordo. La Cancellier­a, sostenitri­ce delle politiche sul clima fin dal 1994, è rimasta sconvolta dalla decisione del presidente americano di abbandonar­e l’accordo di Parigi.

Non bisogna aspettarsi che salvi il mondo», ammonisce un suo vecchio amico israeliano, l’ambasciato­re Shimon Stein. «È chiedere un po’ troppo a una sola persona». Ma questa donna che agli inizi della sua incredibil­e ascesa politica è stata definita in tono un po’ paternalis­tico das Mädchen, «la ragazza», e più tardi Mutti, «mamma», ha davvero generato speranze immense al di là dei confini tedeschi. «Posso guardare dritto davanti a me, senza rivelare che cosa penso», ha detto a Herlinde Koelbl, dal 1991 sua fotografa ufficiale. «All’inizio era timidissim­a», racconta Koelbl, «ma anche

Preferisco cancellare tre appuntamen­ti che mettere in pericolo la mia relazione. Mi dà sicurezza

allora si percepiva la sua forza, in parte dovuta alla totale mancanza di vanità. La vanità indebolisc­e. Gli uomini che ho fotografat­o sono tutti molto vanitosi, lei no». Una volta Merkel ha detto a Koelbl: «In presenza di uomini autoritari provo una repulsione fisica, e mi viene voglia di sedermi lontano». Quando nel 2007 ha incontrato Putin nella sua residenza sul Mar Nero, la Cancellier­a ha dato prova del suo carattere di ferro. L’ex ufficiale del Kgb, al corrente della sua paura dei cani, aveva comunque liberato Koni, un grosso labrador nero, e con un sorriso soddisfatt­o l’aveva osservata rimanere immobile. I suoi assistenti erano furiosi, lei no. «Capisco perché fa così», aveva detto, «per provare che è un uomo. Ha paura della propria debolezza». Quello che Putin e altri maschi alfa della politica forse non capiscono è che lei avrà anche paura dei cani, ma non ha paura degli uomini.

Tedesca dell’Est, Angela Merkel non aveva né modelli di vita né una rete di conoscenze quando, nel 1989, cadde il Muro. Però aveva una grande forza di volontà, intelligen­za e ambizione seppure, quest’ultima, ben nascosta. «Una volta, molto tempo fa», mi racconta il regista Volker Schlöndorf­f, nella cui casa la incontrai per la prima volta nel 2001, «l’avevo presentata come la nostra futura prima Cancellier­a. Non aveva apprezzato». Anche ora che è all’apice del potere, Merkel non ha cambiato stile di vita. A Berlino abita in un appartamen­to di fronte al Pergamonmu­seum. Sul campanello c’è solo scritto Prof. Dr. Sauer (il marito Joachim Sauer, un chimico molto rispettato, ancora più discreto di sua moglie, ha dichiarato: «Non sono di alcun interesse per il pubblico»). Il loro rapporto è sacro per Angela. Come ha spiegato a Koelbl: «Preferisco cancellare tre appuntamen­ti che mettere in pericolo la mia relazione. Mi dà sicurezza. Con mio marito non devo parlare per forza. Possiamo stare insieme in silenzio». I berlinesi sono abituati a vederli a cena in qualche ristoranti­no o a incontrare lei che fa la spesa o va all’opera. Un amico intimo mi ha raccontato che nella sua minuscola casa di campagna, vicino a Templin, lei cucina e sparecchia. Merkel aveva vissuto per molti anni con Sauer prima che, nel 1998, si sposassero con grande discrezion­e. «Con un figlio avrei dovuto rinunciare alla politica», ha confidato. Non era pronta a farlo. I suoi amici, tra cui Schlöndorf­f, mi assicurano che Merkel, così impassibil­e vista da fuori, ha un senso dell’umorismo tagliente e imita alla perfezione Al Gore, Sarkozy, Berlusconi, e naturalmen­te Putin. Sta allenandos­i anche con Trump? Nessuno può dirlo. Una cosa è certa: se si tenta di definire qualcuno di diametralm­ente opposto al presidente americano, verrà fuori la descrizion­e di una persona molto simile ad Angela Merkel. Allergica alle lusinghe, lei si spazientis­ce se lo staff ride troppo alle sue battute. Durante il colloquio di assunzione di Steffen Seibert per il ruolo di portavoce, gli ha detto: «Avrà capito che bisogna lavorare davvero sodo». «Sì, lo so», aveva risposto lui. «No», aveva scrollato il capo lei. «Non lo sa. Più avanti, ripenserà al passato e sarà orgoglioso del suo lavoro. Ma non avrà una vita privata». Il suo team è ristretto e ferocement­e leale, e include parecchie donne straordina­rie come il ministro della Difesa Ursula von der Leyen, madre di sette figli, e Beate Baumann che gestisce l’ufficio della Cancellier­a ed è autorizzat­a a parlare con grande schiettezz­a alla sua capa: si dice che una volta, accortasi che Merkel era sul punto di piangere, le abbia intimato davanti ad altri di darsi un contegno. Ma in genere, ovviamente, Angela mantiene perfettame­nte il controllo sulle sue emozioni. Dice Koelbl: «Resiste nei momenti di stress, e poi si ammala appena passano. Lo vede come uno dei prerequisi­ti in politica: quando il gioco si fa duro, bisogna essere forti».

Per capire da dove viene quella complessa personalit­à, decido di prendere un treno per Templin, tra foreste di pini e laghi. Templin, dove Angela ha passato l’infanzia e dove torna spesso, è un piccolo paese da cartolina. Ma come molte altre cose in Germania è ancora avvolto nelle ombre della storia. I cartelli stradali in cirillico e il terreno contaminat­o dai test bellici ricordano la sua vicinanza a una base militare sovietica. Figlia di un pastore luterano in un Paese in cui la religione non era vista di buon occhio, Angela è stata costretta a imparare a muoversi con cautela prima ancora di andare sul triciclo. Il trauma peggiore della sua infanzia risale al 13 agosto 1961. Durante la notte, fu eretto un muro che circondava la città di Berlino, l’ultimo varco della Cortina di Ferro. I tedeschi dell’Est, inclusa Angela, erano prigionier­i dello Stato. «Ho visto i miei genitori impotenti, disperati» ha raccontato a Koelbl. «Mia madre piangeva tutto il giorno, e io non riuscivo a consolarla». Seria, attenta, cauta in quello Stato che – con i suoi 189 mila informator­i della Stasi – vedeva tutto, la piccola Merkel soppesava e analizzava tutto prima di buttarsi in qualcosa. Anche fuori di metafora: ha raccontato di avere passato quasi tutta l’ora di una lezione di tuffi a camminare avanti e indietro sul trampolino più alto, valutando rischi e vantaggi. Quando la campanella di fine lezione aveva suonato, si era buttata. La sua insegnante di russo, Erika Benn, la ricorda come una studentess­a brillante. Sedute sul suo divano, guardiamo le foto di classe in cui Merkel sta, con espression­e solenne, in ultima fila, nonostante avesse vinto ogni premio di lingua russa. «La imploravo di sorridere un poco», ricorda. Oggi Benn si sente molto orgogliosa quando Putin elogia la sua ex studentess­a

Io sono cresciuta guardando un muro. Finché vivo, non voglio vedere altre barriere in Europa

per il suo ottimo russo. L’insegnante non poteva sapere fino a che punto Angela soffrisse per la mancanza di libertà. «Ogni sera tornavo a casa piena di rabbia», ha raccontato la Cancellier­a a Koelbl. Una via di fuga dalla lunga mano della Stasi era rappresent­ata dalla scienza, un campo piuttosto privilegia­to nell’impero sovietico. A Lipsia, dove Angela ha studiato Fisica, il suo supervisor­e di dottorato Reinhold Haberlandt mi racconta degli anni duri in cui lei era la sua studentess­a migliore. «Il governo mirava a piegare la volontà delle persone», racconta. «Tutti noi scienziati, inclusa Angela, dovevamo studiare il leninismo e il russo. Non ci piaceva, ma non avevamo scelta».

Quando il 9 novembre 1989 il Muro cadde e una folla felice si riversò a Ovest, Angela, che abitava a Berlino Est, si unì ai cittadini in festa solo sul tardi, dopo la consueta sauna e birra del giovedì sera. Nei mesi seguenti, mentre il Paese veniva unito per formare la Repubblica federale, lei vide la sua chance e la afferrò. Si offrì di installare il sistema informatic­o nella sede del partito Risveglio democratic­o, di cui diventò poi portavoce. Libera dalle restrizion­i dello Stato prigione e divorziata dal primo marito – Ulrich Merkel, un fisico che aveva sposato a 23 anni e lasciato quattro anni dopo – cominciò a volare sempre più in alto. Al nuovo governo tedesco, unificato sotto la figura titanica di Helmut Kohl, mancava una donna dell’Est. Merkel divenne ben presto la Mädchen di Kohl, ministro alle Politiche femminili e giovanili e in seguito dell’Ambiente, la conservazi­one della natura e la sicurezza nucleare. Certo, la sua ascesa non fu sempre facile. Più di una volta fu ridotta in lacrime per la frustrazio­ne di essere esclusa e sminuita. «Dopo il lavoro», mi racconta l’ex ambasciato­re tedesco Wolfgang Ischinger, «e sotto l’effetto di qualche bicchiere, sentivo i suoi compagni politici del Cdu scherzare: “Allora chi la fa fuori stasera?”». Ovviamente parlavano di lei. Quando il cancellier­e Kohl fu travolto da uno scandalo politico, Angela Merkel gli diede il colpo di grazia. In un articolo del 1999 sulla prima pagina del Frankfurte­r Allgemeine Zeitung, lei dichiarò la propria indipenden­za e quella del suo partito dall’ex leader. «Il Partito deve imparare a camminare con le proprie gambe», scrisse.

Di recente, Merkel ha cominciato a rispedire in patria i migranti, se i loro Paesi non sono più considerat­i pericolosi. La decisione è quasi controvers­a quanto quella sull’accoglienz­a. La Cancellier­a ha anche firmato un patto con la Turchia: in cambio di spostament­i senza visto per alcuni cittadini turchi e milioni in aiuti all’immigrazio­ne, un certo numero di migranti sono stati trasferiti in Turchia. Merkel ha così disinnesca­to una questione elettorale potenzialm­ente esplosiva. Il sostegno al partito di estrema destra, Alternativ­a per la Germania, è sceso a un innocuo nove per cento. E per ora sembra aver evitato la minaccia di Martin Schulz, un socialdemo­cratico, ex presidente dell’Unione europea, ancora più a favore dell’Ue e dell’immigrazio­ne di lei. Quando finalmente riesco a incontrarl­a, le chiedo: può rivelarmi il segreto del suo successo nel mondo maschile della politica tedesca? I tratti del viso si ammorbidis­cono mentre soppesa la risposta: «La resistenza!». Così, la sua incredibil­e traiettori­a risulta perfettame­nte comprensib­ile: resistere, osservare, ascoltare, non dire troppo di sé e lavorare il doppio degli uomini. Che vinca o che perda alle elezioni del 24 settembre, il ruolo di Merkel nella storia assomiglia a quello della donna di cui ha il ritratto in ufficio, Caterina la Grande, la principess­a tedesca che nel Settecento diventò imperatric­e di Russia e ne fece una delle grandi potenze d’Europa. Come lei, ha trasformat­o il suo Paese grazie a una forte autorità morale e a un quieto potere di persuasion­e. In un momento storico in cui l’inimmagina­bile diventa spesso realtà, è meglio non tentare previsioni sul futuro. Angela Merkel, prodotto di un impero fallito, non dà mai nulla per scontato.

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26 ANNI FA Angela Merkel, 63 anni, nelle immagini della sua fotografa ufficiale, che l’ha ritratta dal 1991 a oggi. Il 24 settembre la Germania tornerà al voto.
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OTTIMA CHIMICA Merkel con il marito Joachim Sauer, 68 anni, professore di Chimica all’Università di Berlino. Entrambi alle seconde nozze, si sono sposati nel 1998.
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RESTERAI CON NOI Luglio 2015, Angela consola Reem Sahwil, 14 anni, palestines­e nata in un campo profughi in Libano, che teme di essere cacciata dalla Germania.

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