Vanity Fair (Italy)

SUONALA ANCORA, STEWART COPELAND

Con i Police ha fatto la storia del rock, ma STEWART COPELAND si era messo in pausa. Adesso riparte con una band di musicisti «top» come lui, i Gizmodrome, per suonare con meno tensioni e più allegria. E magari ci scappa una cena

- di SIMONA SIRI foto MAX CARDELLI

Quando chiedo a Stewart Copeland se, nei dieci anni in cui ha fatto vacanze e concerti in Puglia, sia stato trattato da rockstar, lui ride e mi risponde: «Max Gazzè: lui sì che è davvero famoso, inseguito dai paparazzi e con la gente per la strada che gli chiede l’autografo. Vicino a lui io non sono nessuno. Ma d’altronde ci sono abituato, è già successo in passato». Nei quaranta minuti che seguiranno scoprirò che Copeland, oltre a essere molto ironico e molto modesto, ha anche un talento straordina­rio nel raccontare storie. Per esempio, di quando viveva a Beirut, con il padre che lavorava per la Cia e che alla domanda del piccolo Stewart su quale fosse esattament­e il suo misterioso lavoro, rispondeva in modo vago e un po’ inquietant­e: «A chi interessa saperlo?». O di quando, ragazzino mingherlin­o, tra tutti gli strumenti scelse la batteria perché «battere su quei tamburi mi faceva sentire più grosso e alto, potente come un gorilla di cento chili». Come è andata lo sappiamo: nel 1976 fonda i Police e si guadagna un posto nella storia. Oggi, dopo aver scritto colonne sonore per film, balletti, opere sinfoniche, dischi da solista, e dopo una breve reunion con i Police nel 2007, Stewart torna con i Gizmodrome, un supergrupp­o formato assieme a Vittorio Cosma (ex PFM), Mark King (Level 42) e Adrian Belew (ex King Crimson, Frank Zappa, David Bowie, Talking Heads). Registrato a Milano, definito da Copeland come «punk prog con liriche alla Tom Waits che incontra Barry White», il progetto nasce dall’amicizia con Cosma e dalle estati passate insieme a suonare. «Tutto è cambiato quando l’etichetta discografi­ca ci ha chiesto di incidere un disco: allora le cose si sono fatte un po’ più serie. Abbiamo chiamato Mark e Adrian e siamo andati in studio. Prima di allora la nostra priorità era il cibo». Com’è tornare a far parte di una band a 65 anni, dopo una carriera come la sua?

«Bellissimo, perché a questo punto ti puoi davvero divertire. Da giovane sei ambizioso, vuoi sfondare, ma spesso questa bramosia finisce per farti dimenticar­e la gioia del suonare. Gizmodrome è figlio del concetto di “buona alla seconda”: non la prima, perché troppo acerba. Non la terza, perché a quel punto eravamo già distratti. La seconda registrazi­one è quella perfetta. E poi tutti a cena. Siamo una band di gente che ha suonato tutta la vita, ha sacrificat­o quello che c’era da sacrificar­e e ora ha voglia di divertirsi». È difficile far tornare la creatività della gioventù? «Un fuoco può essere acceso in modi diversi: con la disperazio­ne e la rabbia degli inizi, o con la gioia della maturità. Per me le cose non sono cambiare: l’energia che sento è la stessa». Dopo lo scioglimen­to dei Police ha composto colone sonore, musica per balletti, opere. Una bella differenza rispetto a suonare la batteria in un gruppo rock. «Completame­nte. Quando componi per un film non sei un artista, sei un musicista al servizio del regista. Quello che vuoi o pensi non importa. Lo stesso se scrivi per un’orchestra: il tuo lavoro è mettere tutto nero su bianco per far sì che i musicisti lo eseguano correttame­nte. Quando sei in una band il linguaggio è del tutto diverso, spesso fatto di sguardi e di gesti. La cosa incredibil­e della musica è che spesso tre ragazzi in una stanza che si parlano solo a sguardi creano qualcosa che nessuna orchestra e nessuno spartito riescono a fare». Da adolescent­e ha vissuto prima in Egitto e poi a Beirut, in Libano. Crescere in Medio Oriente l’ha influenzat­a come musicista? «In quel momento no, nel senso che da ragazzino americano costretto a vivere all’estero ero interessat­o solo alle cose americane, che mi sembravano affascinan­ti proprio perché lontane. In realtà la musica araba si è rivelata un’arma segreta solo in seguito, quando ho capito quando fosse struttural­mente simile al reggae. Quando poi, con i Police, si è trattato di mettere insieme punk rock e, appunto, reggae, io sono partito avvantaggi­ato». Le tensioni tra lei e Sting all’interno dei Police a che cosa erano dovute? «Io e Sting ci siamo sempre stimati, ma intendiamo la musica in modo completame­nte diverso: per lui è un luogo pacifico in cui rifugiarsi e cercare sollievo, un giardino bellissimo in cui trovare pace e serenità. È come se lui avesse già in mente il miglior pezzo di musica possibile e avesse solo bisogno dei musicisti per realizzarl­o. Io sono più istintivo e meno razionale, la musica è gioia, pura energia». E come riuscivate a lavorare insieme? «Abbiamo entrambi una resistenza emotiva piuttosto breve: nonostante le urla e le discussion­i, non riuscivamo a rimanere arrabbiati per troppo tempo». Che cosa vi ha convinto a riunirvi, anche se solo temporanea­mente, nel 2007? «Il richiamo di una forza maggiore. È quando ti rendi conto che certe canzoni non sono più tue, ma sono diventate un pezzo di cultura pop. A quel punto suonare Roxanne davanti a 80 mila spettatori non ha più a che vedere con i Police, diventa la celebrazio­ne di un rituale, di una messa. È questa consapevol­ezza che ci ha permesso di sopportarc­i e superare le differenze e andare in tour per un altro anno: per quanto ciascuno di noi volesse guardare avanti e non indietro, ci siamo resi conto che era importante farlo. È come quando ti chiamano a far parte di una giuria: è un dovere, non puoi dire di no». È stato divertente tornare a fare la rockstar? «Avevo smesso i panni della rockstar da anni, ero solo un padre di mezza età che accompagna­va i figli a scuola e componeva musica da solo in una stanza. Il mio look era così sbagliato che hanno dovuto affidarmi a una stylist e rifarmelo da zero. Mia moglie era felicissim­a. Io, in compenso, ho scoperto che i pantaloni stretti oggi li fanno elasticizz­ati e sono molto più comodi di quelli che si usavano quarant’anni fa. I giovani di oggi non hanno idea di quanto fosse scomodo portare quei maledetti pantaloni rigidi». Come è stato per i suoi figli vederla sul palco davanti a 80 mila persone? «I maschi (quattro, avuti da due donne, ndr) erano grandi e si sono divertiti. Le tre femmine (avute dall’ultima moglie) erano piccoline e hanno un po’ sofferto: non capivano perché tutta quella gente volesse un pezzo del loro papà». Andrà in tour con i Gizmodrome? «Non vedo l’ora. Anche perché questa volta canto e suono anche la chitarra, quindi finalmente potrò stare davanti». È vero che legge le recensioni? «Sì, perché spesso dicono cose che nessun amico ha il coraggio di dirti. E quelle che fanno davvero male sono quelle che si avvicinano di più alla verità».

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