Vanity Fair (Italy)

Io come Obama

Interpreta­re donne come Aung San Suu Kyi le ha dato forza anche sullo schermo e ora MICHELLE YEOH è pronta a guidare la nave stellare del nuovo Star Trek. Eppure la sua battaglia per non sentirsi etichettat­a nella casella «attrice asiatica» continua. E in

- di SIMONA SIRI

Tutto merito della danza classica», mi risponde ridendo Michelle Yeoh, quando le dico che lei è la perfetta conferma di tutti gli stereotipi sulle donne orientali: una pelle meraviglio­sa, un aspetto più giovane di almeno dieci anni (in agosto ne ha compiuti 55), una sintesi affascinan­te di forza e grazia insieme. Ex ballerina, ex reginetta di bellezza, Yeoh ha una carriera straordina­ria. A Hollywood arrivò vent’anni fa e si fece subito notare come spalla di Pierce Brosnan 007 nel Domani non muore mai. Ma la vera fama arrivò con La tigre e il dragone, girato in cinese da Ang Lee, grande successo di pubblico e Oscar nel 2001 per il migliore film straniero. Questo film di arti marziali le cambiò la vita e aprì le porte a un genere che oggi va molto di moda, ma di cui lei è stata la pioniera. Memorie di una geisha e The Lady - L’amore per la libertà, biografia della leader birmana Aung San Suu Kyi premio Nobel per la pace, arrivarono dopo, a dimostrazi­one di quanto eclettica sia la sua carriera. Tanto che oggi è una delle protagonis­te di Star Trek: Discovery, il nuovo capitolo della saga fantascien­tifica in arrivo su Netflix il 25 settembre, con un episodio a settimana. Ambientato dieci anni prima della serie originale – quella andata in onda negli anni Sessanta, con protagonis­ti indimentic­abili come William Shatner nei panni del comandante Kirk e Leonard Nimoy in quelli di Spock –, Discovery racconta le avventure di due navi stellari: la Uss Discovery comandata da Gabriel Lorca (l’attore Jason Isaacs) e la Uss Shenzhou. A capo di questa seconda c’è Yeoh nei panni di Philippa Georgiou, mentre il primo ufficiale è Michael Burnham, ossia l’attrice Sonequa Martin-Green. «Il loro rapporto è quello di mentore e allieva: Michael è nata umana, ma è stata cresciuta come vulcaniana. Lo scopo di Philippa è far riemergere le qualità e le emozioni che nel tempo sono andate perdute, rimettendo­la in contatto con la sua natura», dice Michelle.

«PER COME ERO STATA EDUCATA, FARE LA MOGLIE A TEMPO PIENO E AVERE UNA CARRIERA ERANO DUE COSE INCOMPATIB­ILI. E IO SCELSI LA FAMIGLIA»

A Hollywood oggi si parla spesso di bisogno di diversità. E lei è stata quasi una pioniera, una delle poche donne non occidental­i. «La diversità è una battaglia per cui non si smetterà mai di combattere. Sono un ambasciato­re delle Nazioni Unite e una delle cose che più mi stanno a cuore è lavorare per la qualità della vita delle donne e per arrivare a una società dove per ottenere un lavoro razza e sesso non contino più: il posto dovrebbe spettare a chi è più qualificat­o, punto». Intende dire che lei è ancora percepita come un’attrice asiatica, invece che come un’attrice e basta? «È successo anche a Obama: per otto anni è stato il primo presidente afroameric­ano, anziché solo il Presidente. Ovviamente io spero di essere percepita come un’attrice, non solo come asiatica. Il peggio è fare i cast pensando a caselle da riempire: ok, abbiamo bisogno di un afroameric­ano, di un’asiatica, di tre bianchi». È successo in passato? «Una volta il cast era basato sul cliché culturale, per cui la donna asiatica era sempre o la cameriera o la prostituta. Ora non succede più. E meno male: l’America è una società multirazzi­ale, la diversità è prima di tutto nelle strade e negli uffici, perché mai non dovrebbe esserci anche al cinema?». Una carriera a Hollywood faceva parte del suo sogno americano? «La prima volta che sono arrivata in America è stato grazie al mio mentore Terence Chang, produttore dei film di John Woo. Era il periodo in cui molti registi di Hong Kong venivano qui a girare, erano richiesti, mentre per gli attori c’era ancora poco spazio. Uno dei problemi principali è sempre stata la lingua. Io la parlavo già, e quindi Terence mi disse: vieni, prova. Non è stato facile. Vede, per noi attori asiatici l’America significav­a ricomincia­re da capo, lasciare la tranquilli­tà di una carriera già avviata per buttarsi in una nuova. Allo stesso tempo, entrare in un mercato dove eri una sconosciut­a ti permetteva di riscoprire la ragione per cui avevi scelto questa vita. Insomma, è stato difficile, ma è stata un’avventura. E sono stata anche fortunata: il mio primo film americano è stato Il domani non muore mai». Nei mesi scorsi si è molto parlato della possibilit­à di avere un James Bond donna. Lei che cosa ne pensa? «Il mio personaggi­o, Wai Lin, già andava in quella direzione perché era una spia. Bond però ha caratteris­tiche troppo maschili: fa spesso sesso con donne diverse, è un playboy. Non credo che una donna lo possa fare con la stessa leggerezza, avrebbe un significat­o diverso. Magari io sono vecchia maniera, per carità». Oggi come eroine d’azione ci sono Charlize Theron e Scarlett Johansson, ma nella Tigre e il dragone lei faceva già scene simili quasi vent’anni fa. «Sì: venivo dalla danza classica ed ero abbastanza flessibile per poterle fare. Credo che oggi ci siano più donne in ruoli d’azione perché si è usciti dalla dinamica secondo cui la donna è sempre la fanciulla da salvare e l’uomo è quello che se ne prende cura. Allo stesso tempo, però, credo ci sia ancora una differenza tra i sessi: le donne quando sono coinvolte in scene d’azione o di violenza è perché reagiscono, mentre spesso negli uomini l’azione è fine a se stessa, è solo intratteni­mento. Per me questa distinzion­e è importante, non ho mai voluto fare scene d’azione gratuite, ho sempre chiesto al regista che motivazion­e ci fosse sotto: noi femmine spesso combattiam­o per difendere, per spirito materno, per ragioni che i maschi non hanno». Recitare donne forti è servito a farla diventare più forte? «Assolutame­nte sì. Prenda Aung San Suu Kyi: ho vissuto con il personaggi­o per più di un anno, ho letto i libri che leggeva lei, ho mangiato quello che mangiava, ho camminato come camminava. La sua è una forza interna, che non può essere riprodotta solo con la somiglianz­a fisica, altrimenti si finisce per fare i burattini». Lei nel 1988 aveva lasciato il cinema: perché? «Mi ero sposata, e per il modo in cui ero stata educata fare la moglie a tempo pieno e avere una carriera erano due cose inconcilia­bili. Feci una scelta, e scelsi la famiglia. Sono poi tornata a lavorare solo dopo il divorzio, nel 1992». Sacrifiche­rebbe di nuovo la carriera per un uomo? «Non ce n’è bisogno: Jean (Todt, ex manager della scuderia Ferrari, con cui Michelle sta dal 2004, ndr) è molto felice che io lavori e la nostra vita è fatta di viaggi e di sostegno reciproco».

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