GIOVANI IN ETERNO,
MEGLIO TOGLIERSI QUESTA ETICHETTA, ALTRIMENTI RIMANI SEMPRE IL FIGLIO O L’ALLIEVO DI QUALCUNO»
Damiano Michieletto è uno dei registi d’opera e di teatro più bravi che abbiamo in Italia. Ed è anche uno che ne ha fatti arrabbiare molti, di spettatori e critici: tutta la sua carriera è stata una freccia nel cuore dei custodi della tradizione. La Bohème ispirata a Amy Winehouse, un Guglielmo Tell con stupro in scena alla Royal Opera House di Londra, il Così fan tutte in un albergo pieno di scambisti. Insomma, su Michieletto ci sono due partiti: quelli che pensano che sia venuto per distruggere l’opera e quelli che invece dicono che sarà lui a portarla «urlante e scalciante, se necessario, nel XXI secolo» (definizione del critico del Telegraph). A conoscerlo di persona, è un quarantenne veneto spigliato ma senza l’aria del provocatore: ha più l’aria da bassista di un gruppo rock anni ’90. Per quest’autunno, Michieletto ha accettato una missione diversa dal solito: l’allestimento di uno spettacolo sul ghiaccio all’Arena di Verona il 6 e 7 ottobre, la nuova edizione di Intimissimi on Ice. Coordinerà uno squadrone di pattinatori olimpici nella reinterpretazione moderna dei miti classici, con le musiche di John Metcalfe, i costumi di Chiara Ferragni e la partecipazione di Andrea Bocelli.
Cosa la attraeva di Intimissimi on Ice? «Se c’è da contaminare io dico sempre sì. Volevo sperimentare linguaggi che non conosco e avere un pubblico diverso dal solito. E poi io amo imparare. Non sapevo niente del pattinaggio, e questo mi piace». E qual è la principale difficoltà nel creare uno spettacolo così pop? «Riuscire a essere comunicativi senza essere banali. Perché popolare non significa banale, ma ampio, diretto, senza filtri, senza intellettualismi». Arrivare subito, a tutti, senza essere banali: ci hanno provato in tanti. Chi sono stati i più bravi, secondo lei? «Mi viene in mente la poetessa Wislawa Szymborska. Ha vinto il premio Nobel, ma potrei dire alla mia mamma, che è intelligente ma ha fatto la quinta elementare e non sa niente di letteratura, di leggerla e lei riuscirebbe a capirla. Penso a Leonard Bernstein nella classica. O Jovanotti col pop. Sembrava uno sfigato, poi si è costruito il profilo di uno che si è fatto delle domande e si è dato delle risposte». Farebbe qualcosa con Jovanotti? «Anche subito. Il mio sogno è fare un musical, mi piacerebbe incontrare qualcuno di pop, penso a Jovanotti o ai Negramaro, che abbia voglia di andare oltre i tre minuti della canzone in radio e offrirsi al racconto di una storia». Visto che l’ha citata, sua mamma viene a vedere i suoi spettacoli? «I miei genitori a volte vengono, ma molto liberamente. Nessuno nella mia famiglia ha mai fatto teatro, questo mi libera dalle aspettative di cui soffrono tanti miei amici, che subiscono troppo le pressioni familiari. Io no, ho vissuto il dialogo con loro sempre in modo molto leggero». L’hanno sostenuta? Che tipo di ispirazione sono stati per lei? «Un paio di anni prima che io nascessi, mia madre ebbe il compito di organizzare il presepe del paese. Ne fece uno moderno, con le automobili, e Cristo che nasceva nella spazzatura come un profugo. Quando l’ho saputo, ho pensato: “Ha già fatto tutto lei”». Quando si sono accorti di cosa combinava, che i suoi allestimenti facevano molto discutere? «Quando ho fatto le Nozze di Figaro alla Fenice di Venezia e c’era uno che voleva tirarmi il libretto addosso mentre mi urlava: “Buffone”. In quel momento si sono accorti che c’era un po’ di casino intorno a me». Il pubblico a volte può essere un animale difficile e lei lo sa bene. «Diciamo che non ha senso creare per accontentare il pubblico, non è il mio lavoro. E poi il pubblico in sé non esiste, intendo “il pubblico” in quanto entità a parte. Il mio lavoro è fare un prodotto di qualità, in cui io e le persone con cui lavoro possiamo rispecchiarci». Ogni tanto lei viene ancora presentato con l’etichetta di «giovane regista». «In Italia tutti sembrano giovani in eterno perché si entra tardi nel mercato del lavoro. Ma è una cosa, mi scusi la parola, da paraculi. Bisogna scrostarsi questa etichetta. È importante smettere di essere giovani il prima possibile, altrimenti rimani sempre il figlio o l’allievo di qualcuno. Io quest’anno compio 42 anni e un po’ di cose le ho fatte». C’è stato un momento in cui ha «smesso» di essere giovane? «Quando ho compiuto 40 anni mi sono reso conto che dovevo scegliere, che nella vita non hai infinite cartucce». Che cosa è cambiato in quel momento? «È arrivata la consapevolezza che non sono solo il lavoro e quello che ci viene riconosciuto attraverso il lavoro a dare valore al tempo. Non bisogna avere
paura di essere una persona al di là del lavoro. Prima avevo più bisogno di affermarmi, di far sapere che esistevo». I critici li legge? «Con i critici ho lo stesso rapporto che ha il cane con il lampione». Ah, bello. «Non è mia, l’ho letta in un libro. Io leggo tutto, ascolto tutto, tengo conto di tutto. Ma so di aver visto spettacoli orrendi con critiche ottime e spettacoli bellissimi che avevano critiche pessime. Poi ormai sui giornali sono rimaste due righe sul teatro, dicono solo “Bello questo, brutto quest’altro”. Spero che magari con i blog si possano fare discorsi più completi sul teatro». Quindi lei è ottimista su Internet. «Io non ho Facebook, non ho Twitter, non ho Instagram, non ho nemmeno un sito. Ci perderei troppo tempo. Però rimango molto ottimista e incuriosito dal futuro delle cose. Mi piace chiedermi: come sarà il mondo tra 50 anni?». E il teatro? Lei come se lo immagina tra 50 anni? «Mi porta nella polemica, così, lo sa?». Addirittura? «Tutto il teatro è finanziato a livello pubblico, gli spettacoli dipendono sempre dalla politica, dalla capacità di chiederle soldi. Io mi auguro che tutto questo finisca, vorrei vedere il settore privato che riscopre il bisogno di investire nel teatro. Oggi è un circolo chiuso: a teatro ci vanno sempre gli stessi, si fanno sempre le stesse cose, con gli stessi soldi. Quando spacchiamo il guscio e cambiamo le regole del gioco?». E come si fa? «Innanzitutto, smettendo di vivere in un museo. È come con la musica classica, dicono che va ascoltata “perché è importante”. Ma se hai un ristorante, mica puoi attirare le persone dicendo che un piatto “è importante”... Te lo mangi te il piatto importante! Non bisogna avere paura di cambiare le cose». A proposito di cambiamenti, lei passerebbe al cinema? «Ci sono progetti sui quali sto aspettando delle conferme. L’idea è di fare un film musicale, che nasce da un mio lavoro teatrale. Ma ci sono così tanti passaggi per arrivare a dire: “Ho un budget e una produzione”, che è meglio riparlarne tra qualche mese». Il suo unico tatuaggio è la frase «Keep the dream alive», tieni vivo il sogno. Perché? «Il tatuaggio ha una storia strana, mi avevano regalato una maglietta con una sveglia che suonava e una mano che la spegneva. Era solo una maglietta, ma mi ha attivato una serie di pensieri, e così è nato il tatuaggio. È un mio messaggio a chi pensa sempre di sapere già come va a finire tutto. Il mio lavoro ha il senso di ribadire che tutti abbiamo un’immaginazione e il mio augurio preferito è: “Tienila fertile”». Anche ai suoi due figli? «Coi figli non c’è da insegnare, c’è da testimoniare. Conta quello che vedono, conta come vivi, assorbiranno quello. I bambini sono l’esercizio di comunicazione più bello. Hai capito Amleto solo se sai raccontarlo a un bambino. Lì ti rendi conto che è una storia che racconta la vita e che il teatro ha senso solo se fa questa cosa qui: raccontare la vita».