Vanity Fair (Italy)

PIPPO&MONE PREMIATA DITTA INZAGHI

- Di MALCOM PAGANI

Se avesse potuto vedere il secondo tempo del lm, avrebbe cambiato idea anche Gianni Agnelli: «La presunzion­e di Filippo è pari soltanto alla sua capacità di far gol». Se non fosse emigrato in Russia, si sarebbe ricreduto persino Roberto Mancini. Dopo un rigore sbagliato lo colsero in fallo le telecamere: «Ma tu guarda ’sto de ciente di Simone». Per trasformar­e l’egoismo in altruismo e capire che si vince e si perde in undici, i fratelli Inzaghi hanno dovuto smettere di giocare. Al loro posto, dietro un pallone, adesso corrono gli altri. E in piedi, in giacca e cravatta, benedicend­o un cambio d’abito comunque prossimo alla passione di un’esistenza intera, nelle vesti di allenatori di Venezia e Lazio restano «Pippo» e «Mone». Filippo e Simone, gli di Giancarlo, Marina e di un prato verde dove le speranze non sono a†ogate nel velleitari­smo. A San Nicolò, seimila anime alle porte di Piacenza, il pallone rotolava anche in casa. Campionati immaginari a†rontati a piedi scalzi, armando radiocrona­che inventate, con il timbro di Sandro Ciotti ed Enrico Ameri a scandire le giornate, i mobili al posto dei pali e il gesso sul pavimento a delimitare i con ni del campo. Poi la frontiera si è allargata, oratori e tinelli sono sfumati all’orizzonte e le ambizioni individual­i hanno lasciato spazio ai rispettivi viaggi. Filippo e Simone sono emigrati presto per poi tornare, in una circolarit­à al riparo dal sospetto della casualità, al punto di partenza. Il primo ha conquistat­o da calciatore tutto quel che si poteva con Juventus e Milan e dopo un’esperienza da tecnico tra i marosi del Meazza, senza guardarsi indietro, è ripartito dalla terza serie, in laguna, tra altre onde, nella squadra che fu di Loik e che oggi sogna con i soldi di Joe Tacopina, il suo corpulento presidente italo-americano,

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