SAREI FINITO IN OSPEDALE
QUANDO HO SCOPERTO INTERNET, MI SI È SPALANCATO UN MONDO, SCRIVEVO GIORNO E NOTTE. A VOLTE MI SEMBRA UN BENE CHE ME LO ABBIANO CHIUSO, ALTRIMENTI
Povero Ai Weiwei, gliene hanno dette e scritte di tutti i colori. Che è troppo presente nel lm, che non si fanno documentari sulla pelle dei rifugiati, persino che la bellezza della natura, ripresa spesso con l’aiuto dei droni, è «troppo invadente» in Human Flow. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, adesso arriva in sala dal 2 ottobre, giudicherà il pubblico. Di persona, l’artista cinese sembra un gatto gigante, ha già 60 anni ma quando parla sembra averne di meno perché mostra un entusiasmo sincero e usa un lessico terribilmente diretto, per nulla accademico. Forse è furbissimo o forse è un ingenuo pieno di candore, lo diranno i posteri, intanto eccolo qui davanti a me, che mi guarda dritto negli occhi, come per aiutarmi a superare il ltro della conversazione attraverso l’interprete di mandarino. Va detto subito che i suoi lavori più recenti (come l’ultima installazione a Palazzo Strozzi a Firenze «decorato» con gommoni di salvataggio) portavano, inevitabilmente, a un progetto come questo documentario girato nell’arco di un anno in 23 Paesi, dall’Afghanistan al Kenya, alla Turchia, seguendo il usso umano delle moderne migrazioni il cui motore non è altro che la disperazione. Il nome Ai Weiwei signi ca, in cinese, qualcosa come «incompiuto», «non ancora nato», ma anche «futuro», quel futuro che ancora non esiste, mi spiega attraverso l’interprete. E, in fondo, Human Flow di questo parla. Del futuro che non c’è per chi è riuscito a scappare solo per arrivare in un luogo che non aveva mai immaginato e men che meno desiderato di conoscere, grandi città inospitali, nuove lingue da imparare, nuovo cibo, quando c’è, da imparare ad apprezzare. Ai Weiwei ha cominciato a riettere su queste cose nel 2015. Era in Cina, non poteva muoversi perché le autorità gli avevano ritirato il passaporto. Quando nalmente è potuto uscire, si è trasferito a Berlino dove ha conosciuto moltissimi rifugiati. «Con la mia danzata e mio glio siamo andati a Lesbo: volevo vederli arrivare, incontrarli, viaggiare con loro. All’inizio ho solo fatto delle riprese con l’iPhone senza immaginare di andare oltre. Ma quel pensiero non mi lasciava». Non stupisce. La sua storia personale dice tutto. Il padre era un poeta e scrittore acclamato nella Cina della Rivoluzione culturale. «Ma quando sono nato io», racconta Ai, «venne etichettato come nemico della nazione e ci mandarono in esilio in un villaggio in mezzo al deserto del Gobi. La mia infanzia l’ho passata lì, in una casa che non era una vera casa, con mio padre cui era stato proibito di scrivere. So bene che cosa signi ca essere schiacciato, oppresso, visto come un diverso. I rifugiati somigliano a chi sono stato io e si somigliano tra di loro. Sì, anche se abbiamo girato 23 Paesi, mi creda, le storie sono tutte diverse eppure tutte uguali. Perdere la lingua, le abitudini, i parenti signi ca perdere la consapevolezza della propria identità. Ognuno di loro è vivo ma allo stesso tempo non lo è. È in una sorta di sospensione dalla vita. Quello che colpisce di più è la presenza dei bambini, soprattutto perché molti di loro arrivano da soli. I genitori li fanno andare via nella speranza che almeno loro si salvino. E loro, in qualche modo, cercano di sopravvivere.