Vanity Fair (Italy)

UN SILENZIO SPAVENTOSO

MOLTI BAMBINI ARRIVANO DA SOLI. I GENITORI LI MANDANO VIA NELLA SPERANZA CHE SI SALVINO. MA NEI CAMPI PROFUGHI NON NE HO MAI SENTITO PIANGERE UNO.

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Ma sa una cosa? Nei campi non ho mai sentito un bambino piangere. Un silenzio spaventoso». Gli chiedo se dei Paesi visitati ce n’è qualcuno che ha sentito più lontano dalla sua sensibilit­à, dalla sua cultura. «Certamente l’Africa. Ma, anche lì, guardavo i bambini a piedi nudi e pensavo a come ero io da bambino e, no, non c’è nessuna di‚erenza». Dopo l’infanzia in esilio, Ai Weiwei si è iscritto all’università, dove ha studiato cinema con Chen Kaige e Zhang Yimou, due dei registi cinesi più famosi all’estero. Ma i ‰lm dei suoi vecchi compagni di scuola non piacciono per niente ad Ai. «Il cinema narrativo non è arte, anche se riconosco che Addio mia concubina e Vivere! sono molto ben fatti», dice. Se proprio deve parlare di grandi cineasti, preferisce citare nomi occidental­i come Federico Fellini, Martin Scorsese, Bernardo Bertolucci… E uno dei suoi ‰lm preferiti è Il padrino. «Prima di andare all’università, sapevo ben poco di cinema», racconta. «Del resto, gli unici ‰lm che avevo visto da piccolo erano quelli di propaganda rivoluzion­aria. Non esistevano sale nei villaggi, ma un camion che girava da un posto all’altro e si vedevano queste pellicole all’aperto. Solo che i ‰lm erano cose come Lenin in ottobre! E si ripetevano di continuo. Io e i miei amici sapevamo tutte le battute a memoria». Ai, che ha poi lavorato molti anni a New York, ‰no a diventare la star dell’arte contempora­nea che è oggi, non ha mai abbandonat­o la militanza, pagandone le conseguenz­e di persona. Così racconta l’esperienza del suo blog di denuncia che gli è costato anche la prigione in Cina: «Nel 2005 ho scoperto Internet. Fino a quel momento non avevo mai nemmeno toccato un computer. Improvvisa­mente mi si è spalancato un mondo, raccontavo quello che vedevo, la gente reagiva, le cose si muovevano. Anche troppo. Ho cominciato a scrivere giorno e notte, come un pazzo, in un delirio folle. A volte penso che sia stato un bene che me lo abbiano chiuso, altrimenti sarei ‰nito in ospedale!». Ride. Mi confessa di essere perfettame­nte consapevol­e del fatto che la sua militanza e il suo ruolo di dissidente rischiano di mettere in secondo piano le sue capacità artistiche. Ma non sembra farsene un cruccio, o almeno così dice. Non aspira alla gloria eterna. Quando gli chiedo per che cosa vorrebbe essere ricordato, si fa un’altra risata e risponde: «Spero che mi dimentichi­no! E spero che arrivino altri artisti, migliori di me». In‰ne, cambiando tono, aggiunge: «Qualsiasi cosa io faccia purtroppo non cambia la vita di nessuno. Il mio ‰lm, nessun ‰lm, migliora la situazione dei rifugiati: ogni contributo artistico si ferma a un livello estremamen­te super‰ciale. Mi sento impotente, più conosco la loro storia più vedo i miei limiti. Eppure, al tempo stesso, penso che una soluzione esista, ma non dobbiamo cercarla chiedendo leggi ai politici, dobbiamo cercarla dentro di noi, dentro i nostri cuori. Solo la compassion­e umana ci può salvare».

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