Se una notte a Torino un investigatore
Quando un lettore cerca la parola «Facebook» in un libro del 1977, è perché ha appena divorato pagine d’incredibile, spaventosa chiaroveggenza. Le venti giornate di Torino (Frassinelli, pagg. 156, € 17,50), ultimo romanzo dello scrittore e critico teatrale Giorgio De Maria (scomparso nel 2009) uscito 40 anni fa e ripubblicato ora (in Italia e negli Stati Uniti), sembra opera di un Anonymous dell’epoca, qualcuno che pare conoscere il nostro 2017, sorvegliato da social ed entità che sanno tutto di noi. In una Torino inquietante, un investigatore improvvisato indaga sugli orribili eventi che, dieci anni prima, avevano devastato la città. Omicidi, insonnie inguaribili, urla disumane riempivano le notti (ci troviamo tra Borges e Poe). All’origine del terrore, la biblioteca della Piccola Casa della Divina Provvidenza, dove solerti guardiani stipavano manoscritti autobiograci in cui i cittadini, smaniosi di condividere la propria intimità, avevano riportato le banalità quotidiane. Testi di cui gli altri abitanti erano voyeur insaziabili. Le venti giornate parevano essersi concluse all’improvviso com’erano cominciate. Ma, come scopre il protagonista, il potere che soggiogava le anime in cambio dell’illusione di essere meno sole, è ancora qui.