Vanity Fair (Italy)

L’ingrato compito di essere Michael Moore

Le sue lotte contro i poteri, della politica e dell’economia, gli hanno procurato molti nemici. Anche fra chi la pensa come lui. Ma il regista non si arrende e torna in scena. Senza illusioni, però. Perché fra otto anni Donald Trump...

- di JESSICA PRESSLER foto PLATON

Il mormorio ha avuto inizio subito dopo le dieci della sera del 10 agosto, proprio mentre Moore stava varcando la soglia del Bryant Park Grill. L’occasione era una festa per celebrare il suo debutto a Broadway, a 63 anni, con il one-man show The Terms of My Surrender (Le condizioni della mia resa), una commedia piacevole e di quelle che ti spingono a indignarti, in cui Moore condivide aneddoti sulla propria vita, quello che pensa di Donald Trump e il nome di una comoda app che ti permette di chiamare i tuoi rappresent­anti per chiedergli di inveire contro i Repubblica­ni. Lo spettacolo – il cui modesto obiettivo, a detta della frase promoziona­le, è «far cadere un presidente in carica» – è la salva iniziale di una campagna in arrivo di shock-and-awe (la tattica militare del «colpisci e spaventa») da parte di Moore. La campagna includerà poi la serie per Tnt Michael Moore: Live From the Apocalypse. E il ‹lm Fahrenheit 11/9, il cui titolo si deve al «giorno in cui Trump è stato eletto presidente alle 2 di mattina», dice Harvey Weinstein, già socio di Moore in Fahrenheit 9/11, e produttore anche di questo ‹lm. «Perché sono a New York?», chiede Michael Moore. «Perché New York è il problema».

Siamo seduti nel suo u–cio tra la 53esima e Broadway. Moore è sdraiato su una poltrona relax, che come lui è molto stile Midwest: morbida e comoda ma disprezzat­a dai designer. Sa che può sembrare strano, in questi tempi di emergenza politica, che una persona inœuente come lui scelga di dedicarsi a uno spettacolo di Broadway, il cui pubblico potenziale è di abbonati dell’inserto del ‹ne settimana del Times, già d’accordo con la sua visione politica e disposti a pagare ‹no a 250 dollari per il privilegio di dimostrarl­o di persona. «Attacco la bolla dentro cui è chiuso il Times e tutta quell’altra roba che dovrebbe essere dalla nostra», dice. «Ho sentito che dovevo venire dal Michigan a New York per dire quello che volevo dire su un palcosceni­co davanti alla gente. Sappiamo che New York è la patria dell’America progressis­ta. Non possiamo farcela senza di voi. Sono qui in missione per rompere quella bolla, alzare la mano e dire che siamo tutti sulla stessa barca, e sono qui a chiedervi di uscire dalla bolla e aiutarci».

Moore ha vissuto nell’Upper West Side per 25 anni, ma si considera ancora un outsider – un tizio del Michigan. Ha sempre un appartamen­to a Traverse City, a poche ore da Flint, e anche se adesso passa la maggior parte del suo tempo qui, ama palesement­e il suo ruolo di delegato della Middle America e della classe operaia: «Sono qui al posto loro. Non so come ho fatto ad andarmene da Flint e come sia riuscito ad arrivare qui, ma adesso che sono qui, vogliono che parli a nome loro, e così sto facendo del mio meglio per farlo, per raccontare le loro storie». L’obiettivo, dice, è svegliare quella gente e, idealmente, spingerli a una qualche forma di azione: «Nessuno durante la Resistenza in Francia ha mai detto: “Oddio, mi piacerebbe dare una mano, ma devo accompagna­re i bambini agli allenament­i di calcio”. Nessuno ha mai detto: “Oddio, mi andrebbe proprio di fare esplodere quel ponte dei nazisti, ma alle quattro ho la terapia di coppia”. Quello che intendo è che siamo in una situazione altrettant­o seria». Ma prima bisogna iniziare ad accettare le cose che non si possono cambiare. «Ripetete con me», istruisce il pubblico a un certo punto dello spettacolo. «Donald Trump è stato più furbo di tutti noi. Penso che progressis­ti e democratic­i lo abbiano completame­nte frainteso. Sono tutti convinti che sia così facile distrarlo con il luccichio delle chiavi e che si ‹onderà su qualunque esca gli verrà messa davanti. Ma è lui ad avere le chiavi che brillano in mano. È un genio del male». L’energia e il coinvolgim­ento del pubblico di Trump sono evidenti. Anche quando dice cose tremende: «Amano la sua sfrontatez­za. Non sempre sono d’accordo ma pensano comunque che nel dire quelle cose mostri di avere le palle. Magari personalme­nte non credono che McCain sia un codardo, ma pensano: “Wow, voglio uno che sia così. Uno che non si fa troppi problemi nello sparare m***a”. Era una cosa che dicevo sempre quando Reagan era presidente. Dicevo: non è vero che la maggioranz­a degli americani è d’accordo con quello che dice Reagan. La maggioranz­a degli americani vuole leggi sull’ambiente che siano severe in modo da avere aria e acqua pulite, e crede nei pari diritti per le donne. Anche ai tempi di Reagan era così. Ma la maggioranz­a degli americani non dice di se stessa “Oh, sono un democratic­o”, oppure “Sono un repubblica­no”. Vogliono qualcuno che si

batta per le cose in cui credono e le dica senza girarci troppo intorno. Che era quello che faceva Reagan, ed è quello che fa ampiamente Trump». Hillary Clinton, invece… «Ricorda la commemoraz­ione dell’11 settembre l’anno scorso, quando è svenuta e la stampa l’ha trovata tipo tre ore dopo? Erano tutti dall’altro lato della strada a urlarle: “Hillary, Hillary, come ti senti?”. E lei li ha guardati, ha sorriso, ha salutato con la mano e ha detto: “Mi sento bene!”. Giuro su Dio che avrebbe vinto l’elezione se avesse detto…». Scimmiotta un sorriso e un saluto con la mano. «“Mi sento una m***a! Ci vediamo tra tre giorni!”. Cioè, wow! Quanto sarebbe stata onesta. E simpatica. E umana. È una cosa che tutti avrebbero amato». A un certo punto, dice Moore, si è oŽerto di mettere insieme un consorzio di attori comici che aiutassero a scrivere battute per la campagna di Clinton, con l’idea che la cosa sarebbe stata particolar­mente utile per i dibattiti: «Trump ha la pelle sottilissi­ma. È una cosa che ha a che fare con il suo carattere, non riesce a sopportare che lo prendano in giro. Pensavamo che tutto quello che doveva fare Hillary fosse lanciare qualche frecciatin­a, e lo avremmo visto implodere sulle reti nazionali». Il team della campagna di Clinton si è però ri”utato.

AMichael Moore le cose vanno sempre così. Prova a fare la cosa giusta, prova a fare del bene più che può, e Loro dicono di no. «Per come la vedo io, il problema è che non vengo da una famiglia ricca», dice. «Ho la licenza liceale. Mio papà faceva l’operaio, mia mamma era una segretaria. E com’è possibile che sia riuscito ad avere una carriera che la maggioranz­a dei documentar­isti non ha mai avuto? La gente che se lo chiede, la maggioranz­a, non viene dalla classe operaia. Ha frequentat­o le migliori scuole. Gran parte dei suoi genitori aveva soldi a su™cienza da potersi permettere un college decente. È come se queste persone pensassero: “Doveva succedere a noi. Era a noi che lo avevano promesso”. E magari non sono arrivati dove pensavano, dove le promesse dei loro privilegi avrebbero dovuto portarli. E così devo ascoltare la loro… la tristezza che hanno dentro – perché la verità è che è questo che sento». Il discorso suona un po’ autocelebr­ativo, se non fosse che forse ha ragione. «Vengo dall’élite», ammette John Powers, che oggi scrive di cinema per Vogue. «Trovo che molti dei suoi ”lm siano esteticame­nte pessimi, che i suoi libri siano scritti con indolenza e sciatteria, e le battute non è che facciano poi così ridere. Ma una delle cose orrende della sinistra che ho conosciuto io è che abbiamo la tendenza ad andarci giù troppo duro con i nostri. So che anch’io sono andato giù duro con lui. Sicurament­e ha un legame più forte con la gente della classe operaia che con molti opinionist­i, ed è più divertente, per certi versi anche più furbo di quanto sia io: il suo libro è esaurito e il mio non ha venduto una copia».

Eppure Bowling for Columbine è piaciuto a un numero su™ciente di persone da fargli vincere l’Oscar come miglior documentar­io. La cerimonia si è tenuta pochi giorni dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato la loro guerra all’Iraq. Tentato dalle circostanz­e, Moore ovviamente non era riuscito a tratteners­i: «Viviamo un’epoca in cui risultati elettorali ”nti fanno eleggere un presidente ”nto. Viviamo un’epoca in cui un uomo viene mandato in guerra per ragioni ”nte». E aveva continuato mentre partivano i primi ”schi e la musica iniziava a suonare. Ricordiamo­ci: accadeva a Hollywood, dove uno penserebbe che un discorso del genere venga applaudito. E invece no, se a farlo è Michael Moore. «Dichiarars­i contro la guerra in Iraq dopo che era iniziata era un posizione che ti costringev­a a restare da solo», ricorda. «Perché all’epoca c’erano moltissimi progressis­ti a favore dell’invasione». Non riesce a non fare i nomi. «Il New York Times supportava la guerra, David Remnick scrisse un editoriale a favore dell’invasione dell’Iraq. Ci sono stati 29 senatori democratic­i che hanno votato per conferire a Bush i poteri di guerra…». «È la ”ne di Michael Moore», ha detto un commentato­re televisivo. «Oh oh, ha proprio toppato. Non capisce da che parte so™a il vento qui in America». Come gli scarabei d’oro e gli opinionist­i di Fox News, Moore è però quel genere di creatura che prospera nelle dif”coltà. «È il piŽeraio di Hamelin, che guida le sue truppe da un disastro all’altro», ha detto un suo vecchio amico, il giornalist­a e scrittore oggi scomparso Alexander Cockburn, tornando a punzecchia­rlo. Non che Moore non abbia avuto niente da dire negli anni di Obama. «Amo Obama», mi dice. «Penso che molta gente fosse sulla difensiva, progressis­ti e democratic­i, perché era costanteme­nte sotto attacco e senza tregua come mai un presidente prima di lui. E sappiamo il razzismo che c’è alla base dell’attacco». Il regista non si è comunque sentito in dovere di risparmiar­gli le critiche. Ripensarci lo agita: «Penso che in alcune questioni Obama abbia contribuit­o ad aprire la strada a Trump, perché ha permesso che venissero processati i responsabi­li delle fughe di notizie. Ha fatto arrestare e deportare più immigrati di quanto abbia fatto qualsiasi altro presidente. Ha approvato un programma di droni che non era stato progettato bene

Puoi sognare, ma a un certo punto sei costretto a svegliarti. Il presidente non sarà incriminat­o e non se ne andrà

e ha fatto uccidere centinaia se non migliaia di civili, facendoci odiare dalla gente del Medio Oriente e dell’Africa. Eppure…». Si ferma un attimo. «In questo momento ci manca da morire. È tremendame­nte dicile dire qualsiasi cosa di negativo su di lui adesso, dopo tutti questi mesi». Dopo la cerimonia di insediamen­to di Trump, Moore ha detto alla gente che pensava che quello fosse un presidente da un solo mandato. Si è dichiarato certo che lo avrebbero beccato a infrangere la legge. «No, no, no», si ferma quando tiro fuori l’argomento in macchina, mentre andiamo a teatro la sera della prima. «Magari l’ho detto solo per rincuorare la gente, perché erano tutti così depressi». Dunque, cos’è che Moore – l’indovino, il profeta – pensa accadrà? Si ferma a lungo, così a lungo che quando riprende a parlare siamo quasi arrivati a teatro. «Devo ragionare su come rispondere. Non voglio deprimere nessuno. Ma non posso nemmeno fare a meno di dire la verità, per cui è una questione che voglio a‡rontare».

Circa una settimana dopo, ricevo una telefonata in cui mi chiedono di incontrare Michael Moore nel suo ucio. «E così, ecco, sono combattuto su come rispondere alla domanda che mi ha fatto, se voglio rispondere sinceramen­te», esordisce. «Perché se devo essere del tutto onesto, non sono uno di quelli che amano portare la gente alla disperazio­ne. Sono un ottimista, e non un cinico. Credo che la maggioranz­a delle persone in fondo in fondo sia buona e che farà la cosa giusta. E credo che il mondo sia migliorato, anche se ci vuole tempo, due passi avanti, un passo indietro, ma in generale la storia si è evoluta in direzione della luce, e non verso le tenebre. Con clamorose eccezioni. Ma penso sia meglio essere del tutto onesti e a‡rontare quella che penso sia la realtà che abbiamo davanti, perché se siamo determinat­i nell’accettare le cose, per quanto brutte siano, riusciremo a resistere e a trovare un modo per proteggere più gente possibile in questi tempi cupi. Dunque. Pensi a quanti anni lei ha adesso. E poi pensi a quanti ne avrà nel 2025, sarebbe a dire tra otto anni. Aggiunga otto anni a quelli che ha. Ecco l’età che avrà quando nel gennaio del 2025 Donald J. Trump sarà ancora il suo presidente. Ecco tutti gli anni della sua vita che vivrà con lui come presidente». Per lui, l’unica speranza è attivare un vero movimento che guardi alle elezioni: «È il motivo per cui ogni sera sono su quel palco». Ma anche questa ipotesi sembra azzardata. «Impeachmen­t», dice, «la gente nemmeno sa che vuole dire. Oppure la clausola del 25esimo emendament­o, che prevede che se il presidente diventa pazzo una maggioranz­a all’interno del Gabinetto può rimuoverlo, o quantomeno può passare i poteri al vicepresid­ente. La gente ne parla come se fosse una cosa possibile. Come se sul serio possano fare una cosa del genere. Sono tutti lì che dicono: “La Russia, la Russia, ecco chi lo farà!”. Ecco invece cosa succederà: gente come Paul Manafort, ex presidente della campagna di Trump, probabilme­nte sarà incriminat­a. Don Jr. potrebbe esserlo pure. Ma succederà solo al suo entourage». E al presidente che cosa accadrà? «Lui non sarà incriminat­o. Quest’uomo ha sempre fatto in modo di non fare mai nulla di sbagliato. Non beve. Sta attentissi­mo. Non sembrerebb­e, ma nelle cose in cui deve sta attentissi­mo. Con tutte le bravate che negli anni abbiamo letto su Trump e tutte le cose che ha fatto per maltrattar­e gli operai, per aggirare la legge, quest’uomo non ha mai passato una sola notte in galera. Chiunque stia pensando che a farlo cadere sarà una di quelle storie sulla Russia chiarament­e non ha seguito le avventure di Donald J. Trump negli ultimi tre o quattro decenni. Non dico che queste cose non accadranno, ma posso garantire che farà sempre in modo di dimostrare che non c’era e non ci sono testimoni che possano dimostrare altrimenti. Che è il motivo per cui ha aspettato che uscissero tutti dalla stanza prima di parlare con l’ex direttore dell’Fbi James Comey. Non sarà mai incriminat­o per questa storia, perché è la parola di una persona contro quella di un’altra. Non ci sono testimoni, e non ci sono nastri. Perché è un genio del male. Ed è un narcisista così malvagio che non si dimetterà mai né si assumerà la colpa di quello che hanno fatto ¡gli, amici intimi o collaborat­ori. Quindi non credo che Trump se ne andrà. Né tra una settimana, né tra un mese, e nemmeno tra un anno. La cosa è questa: puoi sperare e sognare, o puoi a‡rontare quella che è la realtà. È meraviglio­so sognare, ma a un certo punto sei costretto a svegliarti. No?». (traduzione di Tiziana Lo Porto)

 ??  ?? CONTRO BUSH Agosto 2004, Michael Moore a New York per la Marcia per la pace e la giustizia, durante la presidenza di George W. Bush.
CONTRO BUSH Agosto 2004, Michael Moore a New York per la Marcia per la pace e la giustizia, durante la presidenza di George W. Bush.
 ??  ?? ALZATEVI E GRIDATE Michael Moore, 63 anni, in agosto ha presentato al Belasco Theatre di Broadway The Terms of My Surrender, chiamando il pubblico all’azione.
ALZATEVI E GRIDATE Michael Moore, 63 anni, in agosto ha presentato al Belasco Theatre di Broadway The Terms of My Surrender, chiamando il pubblico all’azione.
 ??  ?? ALLA TRUMP TOWER Gennaio 2017. Moore partecipa alla We Stand United, manifestaz­ione contro Trump alla vigilia dell’insediamen­to del nuovo presidente.
ALLA TRUMP TOWER Gennaio 2017. Moore partecipa alla We Stand United, manifestaz­ione contro Trump alla vigilia dell’insediamen­to del nuovo presidente.

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