Vanity Fair (Italy)

L’inferno delle donne

- di CHRISTINA LAMB foto LYNSEY ADDARIO

Ci sono quelle in politica. C’è la finalista dell’X Factor locale, costretta a cantare in un bunker. C’è un’insegnante massacrata in piazza. Ci sono le avvocate e le giornalist­e. Ecco le loro storie. Dall’AFGHANISTA­N dove, sedici anni dopo la cacciata «ufficiale» dei Talebani, l’identità di genere è ancora una questione di vita o di morte, a partire dai diritti più elementari

L’atmosfera è elettrica: ragazzi, ragazze e bambini, tutti con indosso i loro abiti migliori, applaudono e urlano, i volti sono illuminati dalla luce rosa e azzurra delle luci. Una nuvola di fumo sale dal palcosceni­co. Il presentato­re, tra un’esibizione e uno spot di bibite gassate, non smette mai di fare lo spiritoso. Con i suoi 12 milioni di spettatori – un terzo di tutta la popolazion­e – Afghan Star, l’X Factor afghano, è il programma più famoso del Paese. Per la prima volta, c’è una donna in nale, è una studentess­a diciottenn­e in abito di broccato che gareggia contro un rapper-barbiere con cappellino, il giubbotto di pelle e gli occhiali da sole. Sedici anni fa – prima che l’invasione guidata dall’America rovesciass­e il governo talebano – una scena del genere sarebbe stata impensabil­e, e sembra essere l’immagine perfetta di un Afghanista­n nuovo e più liberale. Ma la verità è che il programma viene registrato dentro un bunker della rete televisiva che lo produce, protetto da guardie armate e un mezzo blindato. Per entrare il pubblico attraversa una porta di acciaio, un posto di blocco della polizia e controlli a raggi X. I giudici devono spostarsi dentro macchine blindate. L’Occidente ha speso mille miliardi di dollari e ha sacricato migliaia di vite, promettend­o un nuovo, meraviglio­so mondo alle donne afghane. Se avessero scontto i Talebani – si vantavano il presidente americano George W. Bush e il premier inglese Tony Blair – le donne sarebbero state libere di candidarsi alle elezioni, di cantare o di ballare in pubblico senza dovere temere per la loro vita. E invece, dalla ne del 2014, quando la Nato ha richiamato indietro dall’Afghanista­n il grosso delle forze, la situazione della sicurezza è di nuovo peggiorata, con il ritorno del controllo di parti del Paese da parte dei Talebani. Secondo l’Onu, nei primi sei mesi di quest’anno si è raggiunta la cifra record di 1.662 morti civili, e il numero delle vittime donne (174) è aumentato del 23 per cento.

Èla dodicesima edizione di Afghan Star, e non è sempre stato così. Le cose sono cambiate quando i Talebani hanno condannato il programma per «oscenità e indecenza» e messo Tolo Tv, il canale televisivo che lo produce, sulla loro lista nera. L’anno scorso sette dipendenti della television­e sono stati uccisi mentre viaggiavan­o su un minibus colpito da un’autobomba. Avere una donna nel programma ha reso il tutto ancora più pericoloso. Seduta in camerino, Zulala Hashemi crede fermamente che valga la pena rischiare. «Guardavo sempre Afghan Star e sognavo di partecipar­e», dice. Per arrivare in nale ha cantato tutte le settimane per più di tre mesi, mentre i mille concorrent­i scendevano no a due. Muove nervosa il grande anello di plastica arancione che porta alla mano destra mentre la madre, Mirman, le ritocca l’elaborato make-up. «Credo che, su tre afghane, due facciano il tifo per lei e una sia invidiosa», dice Mirman, rimasta vedova quando Zulala aveva appena tre mesi. Per crescere i suoi 7 gli (sei femmine e un maschio), Mirman ha tessuto tappeti – i Talebani permettono alle donne di fare poco altro – e vuole assolutame­nte che le vite delle sue ragazze siano diverse dalla sua. Ma molti membri della famiglia di Zulala, incluso il fratello, disapprova­no l’avventura in cui si è imbarcata. Ogni volta che madre e glia lasciano gli studi televisivi, indossano il burqa per non essere riconosciu­te. Hanno anche bloccato cellulari, email e pagine Facebook perché ricevevano troppe minacce. Mentre Zulala deve nascondere il viso per evitare la violenza, il suo avversario adora

essere riconosciu­to. «La gente mi guarda e alza il pollice», dice il ventitreen­ne Sayed Jamal Mubariz. «È una sensazione fantastica». Barbiere della città di Mazar-i-Sharif, due anni fa si è messo a fare il rapper con il nome di Scream of Freedom («Urlo di Libertà»), dopo avere sentito i rap in persiano dei gruppi del vicino Iran. «Ho capito che era un modo per parlare dei problemi attraverso le canzoni», spiega. Alla ‹ne, dopo ore di canto e pubblicità i due ‹nalisti salgono sul palco per l’annuncio del televoto. In sottofondo, si sente una musica carica di pathos. L’esito è scontato: mentre i coriandoli piovono sul pavimento, Zulala è in lacrime. Il premio consiste in una motociclet­ta e un viaggio in Kazakistan, cose di cui una donna afghana non avrebbe comunque saputo cosa farsene. Galantemen­te Mubariz le porge il trofeo con la stella dorata, strappando nuovi applausi. «L’Afghanista­n non era pronto per una celebrity donna», dice Mirman facendo spallucce. Lei e la ‹glia indossano i loro burqa azzurri così da tornare a essere nuovamente invisibili.

Se c’è un posto che più di ogni altro rappresent­a il cambiament­o per le donne afghane, quel posto è il centro di Kabul, in particolar­e la strada intasata dal tra£co che costeggia il ‹ume. Tutti sanno cosa è successo qui. Qui, il 19 marzo del 2015, un’insegnante di 27 anni che si chiamava Farkhunda Malikzada è stata picchiata a morte dalla folla. Era diretta alla sua lezione di Corano quando un uomo che vendeva amuleti ha iniziato a urlare che la ragazza stava bruciando il libro sacro, radunando attorno a sé una folla inferocita. Video girati con i cellulari mostrano uomini che calpestano ripetutame­nte il corpo di Farkhunda e la colpiscono con le pietre mentre altri urlano: «Allahu akbar!» («Dio è grande!»). Malgrado le grida disperate della donna, la polizia, seppure presente, non interviene. A quel punto qualcuno passa sul corpo di Farkhunda con un’auto, poi altri lanciano il cadavere sulla riva del ‹ume e gli danno fuoco. A rendere ancora più agghiaccia­nte l’omicidio è il fatto che non sia stato eseguito da Talebani, ma da giovani cittadini di Kabul, che poi hanno postato i ‹lmati su YouTube. Ma al funerale di Farkhunda c’è stato un momento di speranza e commozione, quando alcune donne coraggiose hanno deciso di trasportar­e loro la sua bara. Una di quelle donne è Rada Akbar, una fotografa freelance. «Quando ho letto su Facebook cosa era successo a Farkhunda, è stato come se avessero ucciso anche una parte di me», dice. «Ho mandato degli sms alle mie amiche, dicendo che dovevamo fare qualcosa, e siamo andate a casa sua. Quando abbiamo visto la bara, abbiamo sentito di non volere che altri uomini toccassero il suo corpo. Suo padre e suo fratello hanno detto: “È come vostra sorella, potete portarla voi”». Messo sotto pressione dall’opinione pubblica, il governo ha subito istituito un processo e, per la prima volta, ha permesso alle telecamere di entrare in tribunale. Kimberley Motley, un avvocato americano che lavorava da tempo a Kabul, ha rappresent­ato la famiglia della vittima. «È stato il miglior processo che abbia mai visto in Afghanista­n, con testimoni veri e prove vere», dice. Dei 49 uomini sotto processo, quattro hanno avuto la pena di morte e in otto pene da 16 anni. Anche undici poliziotti sono stati condannati per non avere difeso Farkhunda. Ma quando l’anno scorso è arrivato l’Appello, Motley e la famiglia della ragazza hanno ricevuto pressioni da parte del governo per far cadere le accuse. Le condanne sono state ridotte e solo 11 imputati sono rimasti in galera. La famiglia di Farkhunda ha ricevuto così tante minacce da dover lasciare il Paese. «Il governo si è limitato a dire che non poteva proteggerc­i e che dovevamo andare via», dice suo fratello Mojeeb Rahman, parlando dal Tagikistan. Di fatto, racconta Mojeeb, i principali colpevoli non sono mai stati arrestati, anche se le loro facce erano perfettame­nte identi‹cabili dai video dell’aggression­e. Una donna che sta cercando di cambiare le cose è Najla Raheel, a capo di un gruppo di 5 avvocati a cui Kimberley Motley ha passato la difesa della famiglia di Farkhunda. Un taxi mi lascia fuori da un centro commercial­e ‹nito solo a metà e penso di essere arrivata all’indirizzo sbagliato. Ma al

NON VOLEVAMO CHE ALTRI UOMINI TOCCASSERO LA SUA BARA, PADRE E FRATELLO HANNO DETTO: È COME VOSTRA SORELLA, PORTATELA VOI —Rada Akbar, fotografa freelance

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