La nobile arte della vacanza
Perché scegliere un albergo qualsiasi a Roma, quando puoi alloggiare nella dimora secentesca di PALAZZO ODESCALCHI, con una vera principessa del Ventunesimo secolo? Avventura tra arazzi, balconi disegnati dal Bernini, marmi toscani e quadri barocchi di Be
Mio marito vuole vedere il Colosseo. Glielo lascio volentieri. Non sopporto l’idea di spuntare dall’elenco l’ennesima meta turistica quando per due giorni abbiamo la possibilità di goderci la fantasia di chi ama vivere come uno del posto, abitando in un autentico palazzo storico. Di questa proprietà con quattro camere da letto, Palazzo Odescalchi, mi ha parlato un’amica francese con ottime entrature, una che non si sa come riesce a dormire in quasi tutte le dimore più sontuose d’Europa. Il palazzo è appena stato trasformato nella più prestigiosa casa in atto della città, piena di arazzi amminghi del Cinquecento, antiche ceramiche greche a gure nere e per no un dipinto di San Giuseppe realizzato da una delle star del Barocco italiano, Bernardo Strozzi. Un po’ temevo che fosse come stare in un museo, ma pazienza: dopo aver passato un mese nella Siberia artica a fare ricerche per un libro, avevo un disperato bisogno di sonno, e nessuna intenzione di rinunciare a un bagno di un’ora in una stanza rivestita di antichi marmi toscani per ritrovarmi in un assembramento di turisti. Provo dal primo all’ultimo gli elisir di bellezza allineati su un vassoio d’argento accanto alla vasca – sali da bagno di Ortigia, eau de parfum Carthusia, saponi di Santa Maria Novella – dopodiché mi piazzo a letto per tutto il pomeriggio, comodamente adagiata in una stanza piena di dorature in compagnia di Lev Tolstoj. Ne esco soltanto all’ora dell’aperitivo, per controllare se mio marito è tornato dalla sua escursione. Lo cerco nel corridoio che attraversa in tutta la lunghezza il piano nobile del palazzo, collegando le cinque maestose sale da ricevimento tramite porte in in lata. Esco sul balcone principale, una follia barocca disegnata da Gian Lorenzo Bernini, e da lì osservo un prete in tonaca che corre giù per la via. La verità è che mio marito non se n’è mai andato. Lo trovo disteso a piedi nudi su un divano di velluto scarlatto, mentre armeggia con l’impianto stereo Sonos. Accanto a lui, un vaso di delphinium blu s ora il bordo della Nobildonna seduta, un dipinto di Van Dyck. Mio marito, che di mestiere progetta kit di stoviglie da campeggio, è un amante della vita all’aria aperta che per metà dell’anno vive in tenda. Detesta qualsiasi traccia di lusso. Ma Palazzo Odescalchi produce un eetto curioso: fa sentire il viaggiatore a casa, benché in una fantastica realtà parallela. Una sensazione d’intimità che poco ha a che fare con l’eetto che il palazzo doveva avere nelle intenzioni progettuali, ovvero impressionare e intimidire i plebei come me. Palazzo Odescalchi, una delle più importanti residenze private della città,
si trova nel cuore della capitale, in quello che, ai tempi della Roma imperiale era considerato l’ombelico del mondo, il punto immobile dal quale si misuravano tutte le distanze. Ha dunque senso che i proprietari del palazzo siano sempre stati al centro della società romana. Nel Diciassettesimo secolo, il cardinale Flavio Chigi, nipote di papa Alessandro VII, lo fece ristrutturare dal Bernini. Il palazzo passò poi nelle mani degli Odescalchi, anche loro con un papa in famiglia (Innocenzo XI). L’attuale proprietaria, la principessa Maria Pace Odescalchi, ha dedicato due anni a rinnovare la proprietà ereditata, collaborando con i migliori restauratori e storici della città, e proseguendo la tradizione famigliare di mecenatismo e conservazione. (Lei e il marito, un imprenditore italiano, possiedono anche un castello a Bracciano, quello in cui nel 2006 Tom Cruise sposò Katie Holmes). Per il restauro, non si è badato a spese: oltre cento metri quadrati di marmi provenienti da antiche cave, circa duecento metri di damaschi in seta di Rubelli e di San Leucio utilizzati come tendaggi, nonché un impianto di aria condizionata centralizzato. «È stato dicile trovare il giusto equilibrio fra casa e museo», mi dice la principessa. «Dovevo unire opere d’arte importanti all’anima contenuta negli oggetti che ti ricordano la tua famiglia». Lo storico dell’arte Paolo Alei formula il pensiero in un altro modo, davanti a una pizza a dieci euro durante la mia prima serata in città, citando la teoria del lusso formulata dal losofo umanista Giovanni Pontano: «L’arte deve commisurarsi alla propria ricchezza senza varcare i conni del decoro. Deve trasmettere un’impressione di pertinenza, di adeguatezza», sostiene Alei. Decoro. Mi piace, questa parola. È ciò che separa il non badare a spese dai guazzabugli come, che so, Dubai. Lo si nota negli interni del palazzo, nella giocosa sovversione delle proporzioni rinascimentali mediante pareti stampinate a motivi che ricordano la pelle stampata o il damasco. «Volevo avvicinare i sotti al pavimento, usando il colore per far sembrare queste enormi sale più simili a portagioielli. Così l’eetto è più caldo», mi spiega la principessa Odescalchi. Ma è presente anche nei dettagli, nei piattini che trovo fra le porcellane di Meissen, colme di caramelle
Rossana molto amate dalla nonna della principessa. E poi c’è il cibo, creato dalla cuoca di famiglia, Mary Ann. Ogni pasto ricorda un dipinto rinascimentale – garganelli con
ori di zucca allo zaerano, ravioli ripieni di mozzarella fresca, branzino al cartoccio – ma non appesantisce mai. Questo gioco d’intrecci – fra il lusso e i dettagli più quotidiani, fra tecnologia e storia – è intessuto con una tale sicurezza che il palazzo risulta più accogliente di qualsiasi hotel abbia visitato. La principessa vive con la famiglia su un altro piano, invisibile a meno che la sua presenza non sia richiesta, permettendoci di credere che il palazzo sia nostro, cosa nella quale mio marito migliora di minuto in minuto. Sulla sua playlist, scorre le tracce no a un brano del famoso rapper americano 50 Cent – dice che sta cercando l’album Get Rich or Die Tryin’ – e alza il volume no a produrre vibrazioni che increspano l’acqua contenuta nei marmi della Sala della Fontana. Qui la principessa sta pensando di creare una Wunderkammer, sull’esempio di Athanasius Kircher, un padre gesuita tedesco del Diciassettesimo secolo, amico del papa, di Borromini e di Galileo, che assemblò una straordinaria collezione di souvenir provenienti da tutto il mondo e portati in Italia dai missionari gesuiti: un armadillo imbalsamato, lanterne magiche, obelischi egizi. La Wunderkammer originale si trovava a quattro isolati dal palazzo, e fu smantellata dopo la morte di Kircher. Io non so esattamente che cosa voglia dire Wunderkammer, ma non importa. Ha un che di poetico che descrive appieno questa casa, rinnovata alla perfezione, intrisa di nobile decoro e incastonata nel cuore di un mondo che pochissimi hanno modo di vedere, guriamoci viverci per pochi, preziosissimi giorni.