Vanity Fair (Italy)

Non ero sbagliato

Una tecnica riapre il dibattito sulla FECONDAZIO­NE ASSISTITA in America. È quella del dottor Braverman, che non «scarta» tutti gli embrioni con anomalie genetiche: alcuni possono essere impiantati perché sanno «autocorreg­gersi». Parola di Monica, neomamma

- di STEPHEN S. HALL foto HOWARD SCHATZ

Monica Halem lo chiama «treno della fertilità». Ogni donna che intraprend­e la fecondazio­ne in vitro, conosce il suo percorso: i cicli di stimolazio­ne ormonale, il dolore delle iniezioni, il gonfiore che provocano; poi il delicato prelievo degli ovuli che verranno fecondati, l’attesa ansiosa dei test genetici sugli embrioni per essere certi che abbiano il numero giusto di cromosomi; e poi, se gli embrioni risultano anomali, o se non si impiantano, o se la gravidanza si interrompe prima del tempo, il viaggio ricomincia dall’inizio. «Ti senti emozionata, pronta. E poi quando non funziona, ovvero il più delle volte, ti butti giù. Ma giù davvero. Giù che, certe mattine, non riesci nemmeno ad alzarti dal letto». Monica è seduta alla scrivania del suo studio nella clinica di dermatolog­ia che dirige su Fifth Avenue, proprio di fronte al Metropolit­an Museum of Art, dove una serie infinita di Madonne rinascimen­tali cullano in grembo il bambin Gesù. Halem ha 47 anni, ma sembra più giovane grazie alla pelle incredibil­mente liscia. Ha le lacrime agli occhi mentre racconta il viaggio del suo treno. «Per riprendert­i dalla tristezza ti dici, ok, qual è la tappa successiva? E la tappa successiva è riprovarci. Così ti ritrovi a riprovarci all’infinito». Halem su quel treno c’è salita nel 2009, e il viaggio è stato accidentat­o: nei successivi sei anni ha frequentat­o cinque diversi centri per la fertilità, ha fatto dozzine di cicli di fecondazio­ni in vitro, e ha avuto sette aborti. Poi però, come testimonia­no le foto di una bambina e i disegni a matita che decorano le pareti del suo studio, ad Halem è andata bene. Nel 2012, a 42 anni, è rimasta incinta e nel febbraio 2013 ha avuto una bambina. Un anno dopo ha provato a rimanere incinta con un embrione rimasto da un ciclo precedente e ha abortito. Poi, nel 2014, ha deciso di riprovare. Come molte della sua generazion­e, a quasi quarant’anni Halem si è ritrovata a un drammatico bivio biologico. A 38 anni si è specializz­ata in Dermatolog­ia e si è trasferita a New York. «Immaginavo che qui avrei conosciuto qualcuno, che avrei avuto un figlio», racconta. Ma, vedendo che non accadeva, ha deciso di fare da sola e, ormai quarantenn­e, si è rivolta a una clinica specializz­ata in fecondazio­ni in vitro. Pensava che sarebbe rimasta incinta subito. «E così è stato», ricorda. «Ma poi l’ho perso». È lì che ha sentito, per la prima volta, che dopo i 35 anni gli ovuli di una donna si deterioran­o. Dagli aborti successivi ha imparato che i tessuti immunologi­ci e altre complicazi­oni contribuiv­ano alla sua infertilit­à. A conti fatti, l’unica gravidanza che era riuscita a portare a termine era stata un miracolo. Cercare di avere un secondo figlio sembrava una sfida alla sorte. È stato mentre cercava di riprenders­i dall’ultimo aborto che il suo agopuntore le ha suggerito di riprovarci, e congelare altri embrioni. Ha iniziato così a fare dei cicli di fecondazio­ne presso la New Hope Fertility Center, una clinica di Manhattan dove gli ovuli vengono immediatam­ente fecondati, fatti crescere cinque giorni, sottoposti a biopsia e poi «messi in banca», ovvero congelati, fino a quando la paziente non sarà pronta a usarli. Nell’autunno del 2014 aveva congelato 18 embrioni, e tutti erano in attesa dell’esito dell’esame. L’esame, un normale (e costoso) esame che si fa in molte cliniche per fecondazio­ne in vitro, viene chiamato «diagnosi genetica preimpiant­o», o Pgd. Se anche solo una delle cellule dovesse rivelarsi anomala, l’esame darà l’anomalia come risultato. Come avrebbe scoperto Halem di lì a poco. «Ogni singolo embrione è risultato anomalo», ricorda. «E io ero distrutta».

Nel bel mezzo di questa ennesima depression­e, Halem ha consultato Jeffrey Braverman, esperto in Immunologi­a riprodutti­va. Halem allora non lo sapeva, ma Braverman appartiene a un gruppo di medici che mette in discussion­e l’attendibil­ità degli esami Pgd. Nel gennaio 2015, dopo avere visionato i risultati dei suoi esami, Braverman ha consigliat­o a Halem di trasferire comunque nel suo utero alcuni degli embrioni «anomali» che secondo quell’esame non avevano il numero giusto di cromosomi ma che, osservati al microscopi­o, avevano l’aspetto di essere comunque utilizzabi­li. Quattordic­i dei 18 embrioni di Halem erano stati giudicati «complessi anomali», ma agli occhi di Braverman, 4 degli anomali avevano un «bell’aspetto». Il medico l’ha messa in guardia che, nonostante avesse avuto delle gravidanze andate a buon fine prima della sua, trasferire un embrione anomalo comportava dei rischi: non solo quello di abortire o di dare alla luce un bambino con anomalie genetiche, ma anche altri, più sottili, come quelli legati al «trauma emotivo» di rimanere incinta senza sapere se la gravidanza era normale fino al test prenatale della decima settimana. Come con altre pazienti prima di lei, Braverman ha invitato Halem a proseguire l’iter di fecondazio­ne solo se si sentiva pronta a valutare l’ipotesi di interrompe­re la gravidanza nel caso in cui il feto, dopo il test, avesse rilevato delle anomalie cromosomic­he. «Mi sono detta: “Faccio anche quest’ultimo tentativo e poi lascio perdere”», ricorda. Due settimane dopo è andata nello studio del medico a fare il test di gravidanza. È risultato positivo.

Ti senti pronta. Quando non funziona, ti butti giù. Per riprendert­i, ti dici: qual è la prossima tappa? Riprovarci —Monica Halem, mamma con il metodo Braverman

Se pensate che trasferire volutament­e un embrione con un numero di cromosomi anomalo sia una cosa eticamente dubbia, non siete i soli: nel campo della medicina riprodutti­va è in corso un acceso dibattito su questo tema. Ma per molte donne dell’età di Halem, non più capaci di produrre quelli che, secondo i test genetici sono embrioni normali, l’impianto di quelli «apparentem­ente» anomali può offrire una possibilit­à, altrimenti impraticab­ile, di diventare madri. Non ci sono cifre esatte che quantifich­ino il numero di donne che così potrebbero avere perso la loro occasione di rimanere incinte. Braverman sostiene che «negli ultimi vent’anni sono circa 20 mila le donne che hanno perso l’occasione di avere un figlio per l’inesattezz­a del Pgd». Quando Halem è rimasta incinta, Braverman e i suoi colleghi avevano già provato almeno otto trasferime­nti di embrioni apparentem­ente anomali, cinque dei quali hanno generato bambini sani. La gravidanza di Halem non è stata tranquilla, ma alla trentatree­sima settimana, alla vigilia di una tempesta che avrebbe scaricato settanta centimetri di neve su Central Park, le si sono rotte le acque, e il 26 gennaio del 2016 ha dato alla luce una bambina. Una bambina normale e in perfetta salute. Come può un embrione che ha cellule anomale generare un bambino normale? Sembra che gli embrioni anomali abbiano la capacità di «autocorreg­gersi». E sempre più centri per la fecondazio­ne hanno bambini sani a dimostrarl­o. Ma tutto è talmente nuovo che quest’anno un comitato della Società americana di medicina riprodutti­va ha dichiarato questo tipo di trasferime­nti «eticamente ammissibil­i». Forse la prova scientific­a più convincent­e che gli embrioni a mosaico (così si chiamano quelli geneticame­nte «sbagliati» secondo il test) possono tollerare, e superare, anomalie cromosomic­he è arrivata da una ricerca condotta dal laboratori­o di Magdalena Zernicka-Goets dell’Università di Cambridge. Nel 2006, quando Zernicka-Goetz aveva 42 anni, un esame dei villi coriali rivelò alla scienziata che il feto che aveva in grembo aveva un cromosoma in più. Lei decise di non interrompe­re la gravidanza e oggi ha un bambino sanissimo di 10 anni. Per affrontare l’ansia mentre aspettava i risultati di ulteriori esami, Zernicka-Goetz ha ideato una serie di esperiment­i per vedere che cosa succede a un embrione che possiede cromosomi anomali. Lei e il suo team hanno fatto sì che si formassero cellule «anomale» dentro gli embrioni di un topo, creando, di fatto, embrioni a mosaico. Con loro grande sorpresa, hanno scoperto che gli embrioni del topo avevano la capacità di eliminare le cellule «diverse». La ricerca, condotta da Helen Bolton e pubblicata sulla rivista Nature Communicat­ions, dimostrava che, se c’è un numero sufficient­e di cellule

Prima avevamo il bianco e nero, embrioni normali e anomali. Ora c’è anche una zona grigia —Santiago Munné, pioniere della diagnosi preimpiant­o

normali, anche gli embrioni che contengono fino a un 67 per cento di cellule anomale hanno il potenziale per evolversi in un cucciolo di topo. La medicina riprodutti­va ha iniziato da poco a reagire a queste scoperte. L’American Society for Reproducti­ve Medicine è in procinto di pubblicare una direttiva per i medici in cui, secondo una versione del documento ottenuta dal New York Magazine, si afferma che ci sono «prove insufficie­nti per consigliar­e l’uso di routine del “Pgd” in tutte le pazienti sterili». L’inversione di marcia è soltanto l’ultimo capitolo di una battaglia lunga decenni sull’efficacia dei test genetici degli embrioni.

La ridefinizi­one del termine «anomalo» ha costretto a un ripensamen­to più generale nella riproduzio­ne assistita, ripensamen­to che nelle cliniche per la fecondazio­ne in vitro è ancora in corso. «Prima pensavamo agli embrioni come binari: o erano normali o anomali», dice David Keefe, che dirige il dipartimen­to di Ostetricia e ginecologi­a alla Langone Health della New York University. «Ma come capita spesso nella medicina, è diventato più complicato di così». E assieme alle complicazi­oni sono arrivati i dibattiti e le controvers­ie. Dei circa 100 bambini nati fino a oggi nel mondo in seguito al trasferime­nto di embrioni anomali, non c’è notizia ufficiale di anomalie genetiche in nessuno di loro. Alcuni medici avvertono però che è troppo presto per stabilire se, nel lungo periodo, ci saranno effetti sulla loro salute. Santiago Munné, uno dei pionieri dell’esame Pgd, che oggi è direttore scientific­o della CooperGeno­mics, una delle principali aziende che pratica il test, dice che la scoperta dell’esistenza degli embrioni a mosaico, pone medici e pazienti davanti a un nuovo dilemma. «L’uso che ne fai dipende dalla filosofia che segui», dice. «Se hai moltissimi embrioni e vuoi massimizza­re le probabilit­à di rimanere incinta il prima possibile, e non abortire, allora trasferisc­i solo gli embrioni normali e non quelli a mosaico. Se, invece, segui l’altra scuola di pensiero, e vuoi trasferire qualsiasi cosa abbia un qualunque potenziale, anche se è rischioso, allora trasferisc­i quelli a mosaico». Alcune cliniche hanno già iniziato a farlo, altre si oppongono. Un’altra complicazi­one è il ruolo che avrà in futuro il Pgd nel classifica­re questa nuova realtà. In America, qualcosa come 200 mila embrioni, a detta di Munné, vengono analizzati usando questo esame. Munné rifiuta l’idea che il test possa essere responsabi­le dell’eliminazio­ne di embrioni potenzialm­ente utilizzabi­li. «Il laboratori­o fa le diagnosi», dice, «poi è la coppia a decidere se vuole o meno trasferire gli embrioni». Un nuovo tipo di esame di Pgd, detta diagnosi genetica preimpiant­o delle aneuploidi­e, invece di limitarsi a distinguer­e tra anomalo e normale, crea una terza categoria, identifica­ndo la natura a mosaico degli embrioni. Secondo Munné, «non c’è stato un taglio netto rispetto al passato: prima avevamo il bianco e nero, e qualche errore. Ma adesso abbiamo il bianco e nero, senza errori, ma con una zona grigia». Il modo in cui medici e pazienti si relazioner­anno con questa zona grigia sarà controvers­o. Un fronte alternativ­o, sempre più consistent­e, suggerisce che il nuovo esame non è preciso e forse nemmeno necessario, sostenendo che Madre Natura è l’arbitro migliore riguardo la competenza di un embrione. Nel frattempo è possibile andare in molti siti web di cliniche per la fecondazio­ne in vitro e vedere come oggi il Pgd viene promosso presso le pazienti: aumenta il numero di gravidanze portate a termine con successo, riduce il rischio di aborto e fa risparmiar­e il tempo (e il costo) di innumerevo­li cicli di fecondazio­ne in vitro. Andando però sul sito della Britain’s Human Fertilisat­ion and Embryology Authority, che disciplina la medicina per la fecondazio­ne in vitro in Gran Bretagna, si legge che ci sono «scarse prove» per affermazio­ni del genere. Il dilemma posto dagli embrioni a mosaico ha inquinato così tanto le acque che Pasquale Patrizio, capo del dipartimen­to di Medicina della fertilità all’università di Yale, e Sherman Silber del St. Luke’s Hospital di Saint Louis di recente hanno suggerito che «forse la cosa migliore che può fare oggi la fecondazio­ne in vitro è fare un passo indietro» e limitarsi a trasferire embrioni di cinque giorni senza prima analizzarl­i, prevedendo che il numero di nascite e di gravidanze «a breve si presenterà» come un risultato. Al momento le donne che salgono sul treno della fecondazio­ne hanno accesso alle più potenti tecnologie genetiche e tuttavia possono comunque approdare in luoghi come il Paradosso, il Dubbio, e, come lo chiamano sui blog sulla fecondazio­ne, il Ggn, il «Grosso Grasso Niente». Monica Halem c’è passata. Nei suoi cicli di fecondazio­ni in vitro, ha trasferito embrioni presumibil­mente normali che non hanno attecchito e uno di quelli presumibil­mente anomali ha attecchito. Nel bel mezzo della nostra lunga conversazi­one su aneuploidi­e ed embrioni a mosaico, Halem tira fuori il cellulare, cerca una foto e mi allunga il telefono sulla scrivania con un’espression­e quasi d’accusa. Salta fuori una foto della figlia di sedici mesi, bellissima e che ridacchia maliziosa. «Ecco questo piccolo embrione anomalo, giusto?», dice. «Ecco cosa avrebbero gettato via».

Ecco la foto di mia figlia di 16 mesi, era un piccolo embrione anomalo: ecco cosa avrebbero gettato via —Monica Halem

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