LA SCELTA DI LILIAN
Da sei mesi il VENEZUELA è nel caos. Eppure, a casa di Leopoldo López e signora, ormai simboli dell’opposizione al governo Maduro, è in arrivo una figlia. Molto voluta: perché «alla fine, vinceremo»
Un tempo faceva impazzire i telespettatori nel reality Robinson: La Gran Aventura. Era il 2001, e Lilian, figlia di Franco Tintori, un italiano emigrato a Buenos Aires dove si era sposato, aveva appena 23 anni. Un viso da bambola e un corpo da atleta: ex campionessa nazionale di kitesurf, ha corso 16 maratone in tutto il mondo e ha praticato anche nuoto, ginnastica artistica, calcio e rugby. Oggi, a 39 anni, Lilian è diventata la «pasionaria» del Venezuela. È lei la bionda con le trecce che si vede nelle foto che arrivano dalle agenzie, in testa a decine di manifestazioni nel Paese sull’orlo della guerra civile dallo scorso aprile. Con oltre 3 milioni di follower su Twitter e altrettanti su Instagram, Lilian è la voce e la forza di suo marito, Leopoldo López, che ha sposato dieci anni fa. E che, da coordinatore nazionale del partito Voluntad Popular, è diventato il simbolo dell’opposizione al governo di Nicolás Maduro. «Leo», come lo chiama lei, è stato arrestato nel 2014 e condannato a 14 anni di carcere con l’accusa di aver istigato alla violenza durante una manifestazione anti-regime. Minacciato, torturato, messo ai domiciliari, di nuovo incarcerato e ora di nuovo ai domiciliari, la biografia di questi ultimi anni di López si intreccia con quella di un Venezuela messo in ginocchio da un governo trasformatosi in una dittatura dove mancano cibi e farmaci. «È una emergenza umanitaria, e il mio Paese non è più una democrazia», mi spiega Tintori al telefono. Dallo scorso 2 settembre non può più lasciare il Paese, pena l’arresto. Il governo di Maduro glielo ha intimato dopo averla fermata in strada, e averla trovata con 7 mila euro: le autorità dicono di dover indagare su quei soldi, anche se Lilian ha spiegato che servivano a pagare le cure ospedaliere di sua nonna. Quanto sente pressante il controllo sulla sua famiglia? «Glielo spiego subito: quello che dirò in questa intervista è intercettato e ascoltato dal regime. Mio marito è vigilato costantemente, ha un braccialetto elettronico alla caviglia che monitora ogni suo movimento, la nostra casa è circondata giorno e notte da poliziotti. Continuo a temere per la sua vita e quello che il Sebin (la polizia segreta governativa, ndr) può ancora fargli. Non credo siano bastate loro le torture che gli hanno inflitto in carcere». La consola il fatto che ora, almeno, sia a casa? «Certo, di questo sono felice, ma è una gioia incompleta. Ricordo sempre che quando mi chiese di sposarlo disse: “Sai che oltre me, sposi il Venezuela, vero?”. Quindi se il nostro Paese è in condizioni così disperate noi non possiamo essere completamente felici». Che cosa la preoccupa di più? «Siamo nel mezzo di un vero disastro economico dove l’inflazione supera il 700%. La fame è tremenda: si vedono madri che vanno a cercare cibo per i loro figli rovistando nell’immondizia. Oppure succede che i bambini svengano a scuola perché non sono nutriti a sufficienza. Molti muoiono: quando la ministra della Sanità ha pubblicato le cifre ufficiali della mortalità infantile, è stata subito silurata. E, se non ti uccide la fame, c’è la criminalità. Caracas è la città più violenta del mondo, abbiamo carceri superaffollate e fuori, nelle strade, il 98% di impunità, si ammazza ovunque, la vita sembra non valere più nulla». Lei ha visitato spesso le carceri. «I diritti umani laggiù non esistono. Non parlo solo di mio marito, ma di tutti gli altri prigionieri politici, circa seicento famiglie coinvolte. Il regime imprigiona chiunque voglia lottare per la libertà,
chiunque si batta per la democrazia, poi li tortura. Senza contare la recrudescenza di malattie dovute alle condizioni delle carceri: ci si ammala di tubercolosi, di malaria, di scabbia. Quanto a Leo, tutti sanno che è innocente, è un prigioniero politico. Nella sua ultima condanna gli è stato persino proibito di parlare. Ma non l’avranno vinta, parlo io per lui. Non ci fermiamo e continuiamo a chiedere a gran voce un cambiamento». Da dove prende questa forza? «Ho un temperamento combattivo, devono essere le mie origini italiane. Dalla mia nonna paterna, Valentina Tintori, nata a Modena, ho ereditato la tenacia. E poi siamo molto cattolici, preghiamo ogni giorno, anche quando ci mettiamo a tavola». Lei ha incontrato due volte Papa Francesco, l’ultima pochi mesi fa. «Inutile dire quanta devozione abbiamo nei confronti di Bergoglio. Gli ho parlato di quello che succede qui e so che segue da vicino quello che sta accadendo. Ma non basta: ora che la situazione sta davvero sfuggendo di mano, riteniamo che il Vaticano e Papa Francesco possano fare molto di più». Per esempio? «Il 75% della popolazione ha perso 9 chili negli ultimi 12 mesi e il 53% dei bambini è denutrito. Poi c’è la questione dei medicinali: manca l’80% dei farmaci, mancano le aspirine per intenderci. Sia la conferenza episcopale venezuelana che la nunziatura apostolica invece li hanno. Ma il regime di Maduro impedisce loro di consegnarli alla popolazione. Mi chiedo, allora, cosa si debba aspettare e quante persone ancora debbano morire perché il Papa si pronunci in modo drastico su questo». Vi sentite abbandonati? «Ci sentiamo soli, aspettiamo il Papa in Venezuela: venga a vedere. Nel suo ultimo viaggio in Colombia, per la prima volta ha dichiarato che il mio Paese sta attraversando una crisi molto forte e che deve cessare la violenza politica. Queste parole sono importantissime e ci auguriamo allora che si convertano adesso in azioni». Il governo ha varato il cosiddetto «piano coniglio», proponendo ai venezuelani di allevare conigli per sfamarsi. «Una misura ridicola. Chi può scappa. Basta guardare all’esodo massiccio di venezuelani che fuggono in Brasile o in Colombia: nel 2016 se ne sono andate oltre 150 mila persone, quest’anno sono molte di più». Come uscire da tutto ciò? «L’opposizione ha fatto tutto quello che poteva. Abbiamo lottato a livello istituzionale, in Parlamento, abbiamo lottato in strada con proteste sempre pacifiche da parte nostra per quattro mesi, mentre il regime ha ucciso 127 venezuelani, sparando sulla folla. Maduro deve capire che il 90% del Paese vuole un cambiamento, in modo pacifico, costituzionale, istituzionale, con il voto popolare. Vogliamo elezioni libere. Ormai non ci resta che l’aiuto della comunità internazionale, che non può accettare quello che sta succedendo con la sostituzione del Parlamento con una Costituente fraudolenta. Io credo in un processo di riconciliazione e di convivenza, non nello scontro. A che cosa serve attaccare, se non c’è poi una soluzione per il futuro?». A proposito di futuro, lei e suo marito a luglio avete annunciato di aspettare il terzo figlio. «Sono al quinto mese, è una bambina. Ma non sappiamo ancora come la chiameremo. C’è un acceso dibattito in corso in casa. Sarà la nostra terza figlia. L’abbiamo molto desiderata e abbiamo molti sogni su di lei, il più importante è che Leopoldo possa starle accanto, ma da uomo libero. Da quando è a casa cerca di trascorrere molto tempo con me e i suoi figli, sta cercando di recuperare il tempo perduto. Ma nessuno gli ridarà indietro i tre anni che ha perso in carcere, le torture, le crudeltà che gli sono state inflitte. Cerchiamo di avere una routine il più possibile simile a quella di una famiglia normale, anche se sappiamo di non esserlo. Leopoldo si sveglia molto presto la mattina, è una cosa che gli è rimasta da quando stava in carcere, dove lo costringevano ad alzarsi prestissimo, cerca di fare un po’ di ginnastica per tenere in esercizio i muscoli, legge moltissimo, i giornali venezuelani e quelli stranieri, cosa questa che invece in carcere gli era espressamente vietata. Ma soprattutto elabora idee per il futuro del nostro Paese, il “piano Venezuela”, come lo chiamiamo in casa». Molti considerano suo marito il Mandela venezuelano. È d’accordo? «Per me è semplicemente Leo. Ha capito tutto subito, per primo ha lanciato l’allarme, e ora è sempre lui che ci dà forza. “Non bisogna perdere la speranza”, ripete in continuazione. “Alla fine, vinceremo”. Io voglio credergli».