CHAT DALL’INFERNO
«Noi siamo i fantasmi», scrive Ataurahaman. Mentre il mondo resta a guardare, ecco come si vive in un campo profughi ROHINGYA
Ataurahaman mi scrive via WhatsApp: «Madam, il mio popolo non ha speranze. Se nemmeno una persona che ha conosciuto l’oppressione trova il coraggio di difenderci, figuriamoci il resto del mondo». La persona di cui parla è Aung San Suu Kyi, leader birmana, premio Nobel per la Pace nel 1991 per la sua battaglia non violenta contro la dittatura militare del suo Paese. E il popolo a cui si riferisce sono i Rohingya, un gruppo etnico di fede musulmana che vive nello Stato Rakhine, in Myanmar (sono circa un milione), perseguitato dalle forze armate appoggiate dal governo e dalla maggioranza della popolazione buddista che teme un radicalismo islamico. Dopo una nuova ondata di violenza che ha costretto altri quattrocentomila Rohingya a fuggire in Bangladesh, la comunità internazionale si aspettava che la premio Nobel, nel suo discorso del 19 settembre, criticasse le azioni dei militari. Non è stato così: «Dobbiamo essere sicuri che queste accuse siano basate su prove concrete, prima di prendere qualsiasi iniziativa». Nel frattempo, l’Onu ha definito gli attacchi «pulizia etnica». «Vorrei che Suu Kyi venisse qui, al campo profughi di Kutupalong. Quale uomo lascerebbe casa sua per questo schifo se non per salvarsi la vita, madam?», scrive Ataurahaman. A mettermi in contatto con lui è la S.R.A. (rohingya.se), un’associazione con sede in Svezia. Mi scrive per tre giorni, senza sosta: «Ho 24 anni, e da nove vivo in questo campo profughi in Bangladesh. Qui ho conosciuto mia moglie, abbiamo una figlia di un anno». E «qui», dice, ha anche perso tutto. «Sono uno delle centinaia di migliaia di Rohingya rifugiati senza cittadinanza, non posso curarmi, studiare, né lavorare. Mio padre è morto su un letto di cartone perché senza assistenza medica». Sono giorni che piove a Kutupalong, e questa mattina, Ataurahaman, avvolto in un telo di plastica blu (mi manda un selfie), accompagna tre anziani appena arrivati all’ambulatorio delle organizzazioni non governative: «Cerco di aiutare i “nuovi” perché so quello che provano. Avevo 15 anni quando con papà, mamma e mio fratello, accusato di essere un terrorista, abbiamo lasciato casa, in Myanmar». Hanno camminato per cinque giorni nella giungla, divorati dagli insetti, senza mangiare, e razionando l’acqua. «Le forze armate bruciano i nostri villaggi, stuprano le donne, ci uccidono perché siamo musulmani, noi possiamo solo scappare». Mi manda sempre via WhatsApp alcune foto per farmi capire dove vive. Vedo: piscine di fango, rifugi improvvisati di lamiere e plastica, tantissimi rifiuti. «Guardi, madam», scrive, «noi siamo i fantasmi che vivono all’inferno».