Sulla mia pelle
Essere figlia di due fenomeni della musica e della Tv non è stato facile, ma lei ha già superato quella fase. Oggi ZOË KRAVITZ ha intrapreso una strada personale, ed è molto consapevole del proprio aspetto (vi piace il suo nuovo look?) e di come il cinema
La prima volta che ho incontrato Zoë Kravitz è stato qualche mese fa, a Los Angeles, durante la promozione di Big Little Lies, la serie Tv che ha sbaragliato gli ultimi Emmy Awards, portandosi a casa ben otto statuette. In quell’occasione, Zoë si era presentata alla stampa fasciata in un abitino verde, i lunghi capelli biondi raccolti in trecce, in un look un po’ hippie rock. Non sono passati neanche sei mesi e la Zoë con cui parlo al telefono oggi, se l’avessi davanti, probabilmente non la riconoscerei. I capelli sono diventati cortissimi e – sorpresa! – color platino, tinti poi di scuro giusto in tempo per la premiazione degli Emmy. Lo so perché davanti a me ho le immagini della campagna autunnale di Tiffany & Co. di cui lei è protagonista insieme ad altri artisti: l’attrice Elle Fanning, le cantanti Janelle Monáe e Annie Clark, ovvero St. Vincent, la modella e attivista Cameron Russell e David Hallberg, principal dancer del Bolshoi Ballet e dell’American Ballet Theater. «Il fatto che siamo tutti così diversi l’uno dall’altro è quello che rende questa campagna così interessante», mi dice prima ancora che possa farle la prima domanda. «Ciò che abbiamo in comune è che siamo tutti individui con personalità e stili diversi. Alle volte, lavorare con i brand può essere pericoloso: alcuni cercano di importi un tipo di donna che non mi farebbe sentire a mio agio nel dire, alle altre donne, “ecco siate come lei”. Qui, invece, l’accento è sull’individualità, perciò non ho avuto problemi ad accettare. Il messaggio è chiaro: siate voi stesse, abbracciate la vostra unicità, esprimetevi. Finiamola di relegare le persone dentro a una scatola». Il fatto è che quando sei figlia di una rockstar (Lenny Kravitz, sex symbol per almeno tre generazioni) e di un’icona della televisione (Lisa Bonet, la giovane protagonista dei Robinson, popolare serie con Bill Cosby, diventata poi una delle donne più belle del mondo, qualifica che a 49 anni ancora detiene), ecco, quando sei figlia di due così non hai molta scelta. Puoi soccombere alla fama dei tuoi, vivendo all’ombra del loro successo. Puoi decidere di sparire in una vita anonima lontana dai riflettori, preferibilmente in una città dove non ci sono paparazzi. Oppure puoi scegliere una terza opzione: giocarti le tue chance nel mondo dello spettacolo, forte della tua personalità, consapevole di avere genitori ingombranti di cui tutti ti chiederanno conto, e di cui tu parlerai in modo sereno, da persona risolta. Che è poi la strada che ha scelto lei. A 28 anni, con un passato da modella e una carriera da musicista ancora in corso, Zoë sembra aver trovato la strada giusta, la propria. Prima in qualche film minore, poi con parti sempre più significative, come quella di Christina nella trilogia di Divergent o come una delle cinque mogli in Mad Max: Fury Road. Fino ad arrivare a Big Little Lies e al ruolo di Bonnie, la seconda moglie del marito del personaggio interpretato da Reese Witherspoon. Un ruolo che cresce di puntata in puntata, a dimostrazione che un pezzo dell’Emmy vinto come miglior miniserie drammatica è anche merito suo.
«Di solito mi fanno fare la parte dell’alternativa. È anche per questo che ho cambiato look, per potere interpretare personaggi diversi»
Essere se stessi non è facile. Lei sembra averlo imparato molto bene. Come ha fatto? «Partendo dal presupposto che crescere è sempre difficile, direi che molto è merito dell’ambiente. La mia famiglia e i miei amici sono stati di grande aiuto. I miei, soprattutto, essendo persone che hanno sempre seguito la loro vocazione, sono stati di esempio e hanno creato per me un clima in cui non ho mai avuto difficoltà a essere me stessa». Avere genitori famosi non rende tutto un po’ più complicato? «Dal punto di vista professionale sì, ho fatto sicuramente più fatica. Ma dal punto di vista della crescita personale no. Con me sono stati sempre e solo genitori, alle volte un po’ severi, soprattutto sulle buone maniere e sull’essere rispettosa verso gli altri. Non ho mai sentito nessuna pressione a diventare come loro, mi hanno sempre lasciata libera di scegliere per me stessa». Le domande su di loro la infastidiscono? «Non più. All’inizio sì, ma perché ero più insicura. Oggi ne parlo volentieri». Lei che adolescente è stata? «Non facile. A cinque anni i miei genitori si sono separati e legati ad altri compagni. Per loro credo di essere stata un po’ un incubo. Interpretare Bonnie mi ha fatto capire cosa si prova a essere dall’altra parte della barricata». Bonnie è uno spirito libero. Anche lei si considera così? «Ho degli aspetti hippie, sì, ma io per esempio sono molto meno “peace & love” di quanto lo sia lei. Il fatto è che sono cresciuta in mezzo a questo tipo di persone, mia mamma mi faceva fare yoga che ero piccolissima, per cui verso i 19, 20 anni mi sono un po’ ribellata a quel mondo». Tatuaggi, piercing, fino a poco tempo fa treccine: il suo aspetto influenza i ruoli che le vengono offerti? «Assolutamente. In questo senso Bonnie è un miglioramento, perché è una madre ed era la prima volta che ne interpretavo una. Di solito mi facevano fare la parte dell’alternativa. È anche per questo che ho cambiato look, per essere in grado di interpretare
«Sul lavoro, i posti per le donne sono limitati. Per questo siamo abituate a combattere tra di noi per ottenerli. Agli uomini non succede»
personaggi diversi, raccontare storie diverse». Pensa che la gente tragga conclusioni sulla sua personalità basandosi sul suo aspetto? «Non lo facciamo tutti? Purtroppo fa parte della natura umana. Non è certo il nostro aspetto migliore, ma tutti tendiamo a giudicare gli altri sulla base di indizi superficiali». I suoi tatuaggi hanno una storia? «Alcuni sì, li ho disegnati io. Altri mi piacevano solo esteticamente». I gioielli le piacciono? «Molto. Mi piace cambiarli a seconda dell’umore. In questo senso sono molto più parte della mia personalità rispetto agli abiti». Immagino che per un’attrice cambiare completamente aspetto sia una delle sfide più intriganti. «Ed è interessante come questa cosa valga molto più per le donne che per gli uomini: è incredibile cosa può fare un taglio di capelli per la carriera di un’attrice». A proposito di cambiamenti: per interpretare l’ex vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney nel film Backseat, Christian Bale è dovuto ingrassare tanto da essere quasi irriconoscibile. «Vero. E non era neanche la prima volta (per il film L’uomo senza sonno aveva perso 30 chili, ndr). Capisco che in confronto a questo cambiare taglio sia niente». Alle attrici viene però chiesto di imbruttirsi per interpretare parti drammatiche. «È molto frustrante. Credo che nel 2017 dovremmo evolvere rispetto all’idea che per la parte di una donna sexy ci voglia una bionda con le tette grosse, oppure che per un personaggio divertente serva un attore grasso. Il pensiero che certe personalità corrispondano a determinati tipi fisici è pericoloso». Qualche settimana fa, in un’intervista, l’attrice malese Michelle Yeoh mi ha detto che, spesso, i cast vengono fatti con questo criterio: tre bianchi, un nero, un asiatico. «Esatto. Le minoranze servono solo per coprire una “quota”. Poiché sono nera mi capita spesso di fare la moglie del personaggio nero. Ma io dico: nel film ci sono tre coppie, perché io non posso essere sposata a uno qualunque dei tre uomini? Che cosa c’entra la razza? È davvero un modo vecchio di pensare e non giova alla narrazione». Però gli spettatori ora ci fanno più caso: se in una serie Tv non c’è neanche un personaggio afroamericano, iniziano le polemiche. «La gente lo nota perché quella non è la realtà in cui vivono. Dobbiamo passare da “mettiamo un attore di colore per far felici gli spettatori” a una situazione in cui la razza non importa più e tutti i personaggi possono essere indifferentemente bianchi, neri, indiani, di qualsiasi colore». Big Little Lies è stato un grande successo, ma se non ci fossero state due donne, Witherspoon e Kidman, a produrlo, probabilmente non avrebbe mai visto la luce. «Le donne si stanno rendendo conto che se vogliono cambiare Hollywood devono farlo da sole. Non possiamo pretendere che gli uomini siano interessati a produrre una storia come questa. Reese e Nicole hanno fatto una cosa davvero sorprendente: se cambiamento ci sarà, sarà perché sempre più donne si metteranno dietro alla macchina da presa e decideranno quali storie raccontare». Parlando di donne straordinarie: l’attrice Marisa Tomei, Oscar come non protagonista per Mio cugino Vincenzo nel 1992, è la sua madrina. «Non sarei la donna che sono se non fossi cresciuta con lei e mia madre accanto. Quando sei piccola non te ne rendi conto, ma avere avuto loro come modelli ha certamente contribuito a formarmi». Le donne possono essere molto competitive le une con le altre. Perché? «Per sopravvivenza. Perché i posti per noi sono limitati e siamo abituate a combattere tra di noi per averli. Non ci rendiamo neanche conto, ma spesso in noi scatta quell’istinto per cui “se non sono io, sarà lei”. Agli uomini non succede perché sanno che c’è spazio per due, tre, quattro di loro». La maggior parte degli attori vive a Los Angeles. Lei come mai ha scelto New York? «Non mi piace l’idea di vivere in una bolla. A New York hai molte più possibilità di fare una vita vera, a contatto con gente di tutti i tipi. Mi piace prendere la metropolitana: mi metto lì e guardo l’umanità, così varia».
«Non ho mai sentito nessuna pressione a diventare come i miei genitori, mi hanno sempre lasciata libera di scegliere per me stessa»