Anche i Beatles piangono
La Brexit che «bisogna rispettare», i fabulous four e il loro unico giorno di vacanza al mese, la moglie «tosta» Barbara, certe cene con Paul McCartney che fanno impazzire i fan, i consigli «trascendenti» di David Lynch e le fragilità di cui non aver paur
Ringo Starr non ti stringe la mano. Piuttosto allunga il gomito e chiede di strofinarlo contro il tuo: un escamotage suggerito dalla sua fissazione per i germi. A volte però fa qualche eccezione. «Lo sapevo io che gli anni ’60 non erano mai passati!», esclama complimentandosi a lungo per il mio outfit rétro. «Vieni qui, fatti abbracciare: peace & love!», mi stringe con il calore di un vecchio amico. Per Richard Starkey, vero nome dell’ex Beatles, promulgatore instancabile del motto «peace & love» (anche nei social che gestisce personalmente), a Londra per parlare del diciannovesimo album solista Give More Love, i Sessanta sembrano davvero non essere mai finiti. Accompagnato dal supergruppo All Starr Band (per farne parte devi essere, appunto, una star), suona ancora la batteria col suo inconfondibile piglio emotivo; canta ancora, oltre ai successi della carriera solista (tutti tra il 1971 e il 1975), quelli firmati coi Beatles come With a Little Help From My Friends. Ma soprattutto, può ancora far conto su quel «piccolo aiuto dagli amici»: Dave Stewart, Peter Frampton, Joe Walsh degli Eagles (suo cognato) e un certo Paul McCartney sono solo alcuni degli artisti che hanno contribuito alla realizzazione di Give More Love . Dieci nuove canzoni, dal rock al country, suonate con l’eleganza del fuoriclasse e piene di energia positiva. «In genere inizio improvvisando al beat di un sintetizzatore finché non trovo idee, un verso o un ritornello. Poi chiamo i miei amici a dirigermi», spiega Starr. Volto sorridente, spilla da balia all’orecchio e aspetto invidiabile per i suoi 77 anni. Merito della dieta vegetariana, la pratica della meditazione e, ovviamente, della musica: «Spesso mi chiedono, suoni ancora? Ma io ho sempre e solo voluto suonare».
La sua voce oggi sembra aver guadagnato in espressività... «Sorpresa! A me sembra che più canto e più migliora. Ma c’è anche un fattore rilassatezza: ho registrato nella mia casa di Los Angeles, nello studio della guesthouse dove mi trovo a mio agio. Penso di fare molto meglio lì dentro che in un super studio con vetri protettivi e luci rosse che s’illuminano. C’è sempre un po’ di tensione in quelle situazioni, noi invece ci divertiamo soltanto». Il testo di Show Me The Way, dedicata a sua moglie Barbara Bach, sposata 37 anni fa, mostra il suo lato più vulnerabile. «Ma io non ho mai avuto paura di piangere. Visto che ero uno dei Beatles, la gente pensa che non abbia gli stessi sentimenti di tutti, che la mattina mi alzo dal letto e mi metto a volare sul soffitto. Invece sono come tutti gli altri». Vuol dire che la fama non è mai stata d’intralcio al suo matrimonio? «No. Barbara non mi chiama mai “Ringo”, per lei sono “Richie”. A meno che sia arrabbiata, in quel caso grida: “Richard!”. È originaria del Queens, una tipa tosta. E per i miei figli sono semplicemente “papà”». In On the Road Again e in Show me The Way, al basso c’è Paul McCartney. «Sapevo che sarebbe venuto in città e mi ha detto subito di sì. On the Road Again ha l’energia di un live, ci siamo molto divertiti: io sono impazzito alla batteria e Paul si è messo pure a urlare verso la fine. Ma soprattutto, volevo ci fosse nella canzone per Barbara, per me è molto speciale. Il suo modo di suonare il basso è unico, è molto melodico, fa sempre la cosa giusta». Vi frequentate spesso? «Ci vediamo ma abbiamo le nostre vite separate, i nostri tour, i nostri dischi. Quando è a Los Angeles ceniamo insieme. Buffo perché in genere al ristorante ci sediamo uno di fronte all’altro ma l’ultima volta eravamo messi di fianco ed è stata una scena troppo spassosa: la gente entrava, vedeva uno, poi l’altro e strabuzzava gli occhi come per dire: oddio, sono di nuovo insieme! I Beatles sono ancora molto amati dal pubblico, pazzesco». La nuova edizione di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band ha fatto tornare il disco in vetta alle classifiche inglesi lo scorso giugno, 50 anni dopo la sua pubblicazione. È vero che quando ha ascoltato i nuovi mix ha detto: «Finalmente riesco a sentirmi»? «Verissimo. Per questo mi piacciono da matti, Giles (figlio del produttore dei Beatles George Martin, ndr) ha alzato a dovere il volume della batteria, adesso è esplosiva. Ai tempi invece c’erano limiti tecnici: si doveva attenuare il suono del basso e di conseguenza si abbassava la batteria per non infastidire la voce». Alcune sue recenti dichiarazioni farebbero quasi pensare che lei riesca a giudicare il fenomeno Beatles da osservatore esterno. «Ora posso farlo. Soprattutto dopo aver visto il documentario di Ron Howard, Eight Days A Week: mi ha commosso. Lavoravamo davvero tanto, avevamo un giorno di vacanza al mese e ci importava solo della musica: scrivere, suonare, registrare. Da sempre. Ai tempi di Amburgo, quando ero ancora nel gruppo Rory Storm and the
«CON DAVID LYNCH PRATICO MEDITAZIONE. LUI SI METTE A UN CENTIMETRO DALLA MIA FACCIA E URLA: “BRAVO, RINGO!”. OK, DAVID, TI SENTO BENE»
«VISTO CHE ERO UNO DEI BEATLES, LA GENTE PENSA CHE LA MATTINA MI ALZO E MI METTO A VOLARE SUL SOFFITTO. INVECE SONO COME TUTTI GLI ALTRI»
Hurricanes e dividevamo il palco con i Beatles, nel fine settimana si suonava dodici ore di seguito. È così che abbiamo imparato tutte le nostre mosse, insieme. E quando era il turno dei Beatles, ero sempre in prima fila, li adoravo, e dopo tutte quelle ore di concerto, ricordo che avevo pure richieste speciali: a pensarci oggi, è una follia! Non avevo la più pallida idea che un giorno sarei finito a suonare con loro. Non puoi mai dire cosa ti riserva la vita». So che lei non vuole parlare di politica. «No, infatti». Eppure i suoi commenti alla Bbc a favore della Brexit hanno causato un gran battage. «C’è stato un referendum, la maggioranza ha deciso di andarsene e io sostengo quella decisione perché è così che funziona una democrazia. Tutto qui». Alla gente non è andato giù che abbia detto una cosa del genere perché lei vive a Los Angeles e non risentirà degli effetti... «Non importa cosa dicono. Ho parenti in entrambi i continenti, ho vissuto in Inghilterra per tanti anni, ho vissuto nel Sud della Francia e sono fisso a Los Angeles da pochi d’anni. La mia base era qui a Londra fino a circa il 2014, ma queste cose non le sa nessuno». Cambiamo argomento. Pratica ancora meditazione trascendentale? «Sì, ogni mattina. Sono amico di David Lynch che ne è grande promotore: l’ha portata nelle scuole di alcune città e lì il tasso di violenza si è subito abbassato. David è molto attivo al riguardo ed è anche una persona così divertente. Si mette a un centimetro dalla faccia e mi urla: “Bene, Ringo! Ottimo, Ringo!”. Ok David, sono qui davanti, ti sento forte e chiaro...». Se oggi potesse dare un consiglio al giovane Richard Starkey, cosa gli direbbe? «Non mollare mai». Infatti lei non ha mollato. «No, però ci sono stati momenti difficili e prima di unirmi al gruppo di Rory, lavoravo in una fabbrica. È il consiglio che do anche a mio figlio (Zak, attualmente batterista degli Who, ndr), di continuare a suonare: è quel desiderio che mi ha dato la forza di andare avanti, mentre per i gruppi di oggi pare sia soltanto una questione di fama. Con John, Paul e George, pensavamo solo a suonare. Ci volevano in un club? Fantastico. Siamo passati ai teatri? Bellissimo. Abbiamo riempito gli stadi? Wow, meraviglioso».