Ora che sono una madre BAMBINA
Reduce dalla realizzazione di un documentario molto duro sulla realtà infantile di Caivano, in Campania – «Ho partorito due giorni dopo aver completato il montaggio» –, BEATRICE BORROMEO racconta l’esperienza della maternità: «Sto sempre con mio figlio Stefano, se li metti al mondo poi devi anche crescerli». E la quieta realtà del Principato divisa con Pierre Casiraghi: «Monaco è un paesino, ma ci siamo sempre detti che avremmo potuto vivere ovunque»
CÕè un giorno, nella vita di ogni madre, che – curiosamente, o forse no – si ricorda per sempre: «la prima volta che sono andata via». La prima volta che vai via è un misto di tante cose abbastanza difficili da definire, ma che Beatrice Borromeo, seduta a un tavolino di uno dei bar dell’aeroporto di Malpensa, ha tutte dentro gli occhi mentre aspetta di partire per New York. «Sono già stata via una notte, per un matrimonio. Ma queste saranno tre, non sono tantissime?». Beatrice parte sola, senza Pierre Casiraghi, suo marito, ma soprattutto senza Stefano, il loro bambino di 7 mesi dal quale, per sua stessa ammissione, si stacca solo se proprio deve e per il minor tempo possibile. «Se non sono con lui – cosa totalmente innaturale – deve esserci una buona ragione», dice. La buona ragione di questo viaggio è la sua partecipazione al Fashion 4 Development First Ladies Luncheon, di cui Borromeo è special envoy – «il mio modo di onorare la mia amicizia con Franca Sozzani, che mi coinvolse nel progetto» – durante il quale presenta il documentario Bambini mai che la giornalista ha realizzato insieme a Mia Benedetta e che andrà in onda su Sky Atlantic il 1° ottobre. Bambini mai è stato girato a Caivano, città campana nota per realtà terribili: il Parco Verde, tra le più grandi piazze di spaccio del Sud, e la morte della piccola Fortuna Loffredo, gettata da una finestra nel giugno 2014 dopo essere stata oggetto di ripetuti abusi. «Ma di Caivano ho voluto raccontare un’altra storia: la vita dei ragazzini che frequentavano la scuola media Viviani, il mondo non filtrato visto dai loro occhi, e la tenacia della preside Eugenia Carfora che in un contesto davvero difficile era riuscita a creare legami speciali con i suoi alunni. Uso il passato perché poi, la Viviani, è stata smembrata. Il motivo è un cavillo formale: mancavano dieci ragazzi per il raggiungimento del numero minimo per farla andare avanti. Conosceva la situazione anche l’allora ministro dell’istruzione Giannini che mi ha confessato di essere dispiaciuta, ma impotente. Mi ha detto: hanno vinto gli altri». Perché ha scelto, tra le tante, di raccontare questa storia? «All’inizio non ero convinta: mi sembrava tutto troppo complicato. Però, poi, sono andata lì cinque giorni, con una telecamerina, l’ho accesa e ho lasciato parlare i ragazzi. Quasi tutte le interviste del documentario le ho fatte il primo giorno, perché poi per loro è diventato più difficile parlare o, almeno, farlo con spontaneità. Tutti, come prima cosa, mi hanno detto che non avevano paura. Avrei voluto intitolare il documentario così: io non ho paura. Invece l’ho chiamato Bambini mai, che in fondo è la stessa cosa. Sono bambini che non possono permettersi davvero di esserlo, e di fatto – a parte alcuni momenti di gioco – nemmeno lo sono: dopo due minuti che ci parli capisci che hanno vissuto più di te». Come l’hanno accolta i ragazzini? «Forse come un ufo, che all’inizio diceva loro: “Dovete studiare, perché
solo studiando potrete fare quello che vorrete e guadagnare”. Mi guardavano e mi rispondevano: se voglio io adesso vado là e guadagno 500 euro in un’ora, facendo il palo o portando la droga da qualche parte. Però credo siano stati anche contenti di raccontarsi, e di essere ascoltati senza giudizio. Mi sembrava che quando spegnevamo la telecamera, stessero meglio». La preside Carfora è un personaggio molto bello, ingaggiata com’è nella sua lotta quotidiana e porta a porta contro l’abbandono scolastico. «La Viviani era un’isola felice di legalità e futuro. Dopo il suo accorpamento ad altre scuole, la preside è stata spostata presso una scuola superiore di Caivano. Ma – come spiega bene lei stessa – è la scuola media il momento in cui è ancora possibile spingerli verso una strada buona, è questione di un attimo. Alle superiori hanno già scelto da che parte stare. E il degrado del contesto non aiuta a orientarsi. Ho incontrato una donna che teneva il figlio in casa tutto il pomeriggio a giocare alla playstation. Quando me l’ha detto ho pensato che fosse una pessima madre, poi ho capito che era l’unico modo per farlo stare lontano dalla strada, dove per i bambini non c’è niente di buono. Nell’unico campetto da calcio della zona – messo in piedi da Bruno Mazza, ex camorrista e spacciatore che ha cambiato completamente vita dopo la morte per droga del fratello – si gioca coi palloni regalati dalla camorra. All’appello di Bruno nessuno dello Stato ha risposto. E questo fa capire ai bambini dove possono chiedere, e ottenere, e dove no. Mi sono domandata: se mio figlio fosse nato lì che possibilità avrebbe avuto?». Era incinta quando ha girato? «Ho scoperto di aspettare Stefano una settimana dopo aver avuto l’ok di Sky sulla storia, e l’ho partorito due giorni dopo aver finito il montaggio. Il documentario ha accompagnato tutta la mia gravidanza». E ha condizionato il suo lavoro? «Ho solo riflettuto un po’ di più prima di fare delle cose, ma le ho fatte comunque». E adesso che c’è, le rifarebbe? «Adesso la vera differenza è che non faccio più progetti tanto per rimanere occupata. Prima il lavoro dava senso alla mia vita, ora non ne ho più bisogno per stare bene: è già sensatissimo tutto così. Ma non so ancora dire come sarà: sono stati mesi strani, lui è ancora molto piccolo. So che non mi piace stare senza fare niente, ma so anche che la mia idea sui figli è che se li fai, non li lasci crescere agli altri. Il risultato è che me lo porto ogni giorno nell’ufficio della mia casa di produzione e che ho raggiunto livelli di concentrazione altissimi: riesco a fare le cose anche se ce l’ho accanto. È un angelo – sorride a chiunque, dorme tutta la notte: non capiamo da chi abbia preso – ma un angelo piuttosto energico». Un figlio era una cosa che ha sempre immaginato? «Sì, ma non era certo una cosa che potevo dire pubblicamente, se no ogni mese di ogni anno qualcuno avrebbe scritto che ero incinta. Come del resto è stato anche fatto». Com’è la sua vita a Montecarlo? «Io e Pierre ci siamo sempre detti che avremmo potuto vivere ovunque, e alla fine va bene lì. Ho mio marito, mio figlio, il mio lavoro: non mi manca nulla. Monaco è un paesino, se ci vivi anche fuori stagione, con una bellissima natura intorno: posso pranzare in riva al mare e poi fare una passeggiata nei boschi con Uma, il mio cane. Io non sono una che esce la sera: mi piace cucinare, stare con Pierre e Stefano. Se avessi vent’anni e fossi single certamente farei una vita diversa: starei a
New York, perché è l’unico posto in cui se ti siedi, qualcuno te lo fa notare, e ti senti in dovere di rialzarti immediatamente e rimetterti in gioco. Ma non è questa la situazione, e Monaco è un posto bello e sicuro dove crescere un bambino». Sente mai il bisogno di fuggire dalla Rocca? «Siamo una famiglia che viaggia molto, non stiamo sempre lì. E se mi viene il magone per la mancanza di mio padre o dei miei amici storici di Milano, in tre ore di macchina sono da loro. Ma da quando è nato Stefano non l’ho mai fatto». C’è anche la mondanità, a Montecarlo. «Certo, c’è anche un aspetto di vita molto lussuoso e molto lontano dalla realtà, ma è una piccola parte della vita che facciamo noi. Andiamo ai gala 2 o 3 volte l’anno. Il resto del tempo è assolutamente normale. Quando torno a casa dal lavoro trovo Pierre davanti alla Tv che guarda un documentario. Li guarda tutti, anche quelli sui batteri». Che vita fa suo marito? «Molto piena e molto sportiva: lavora alle sue società immobiliari e poi appena può arrampica, va in barca a vela. Adesso ha appena messo su una squadra di combattimento medievale, credo usino le spade, forse i martelli. È sempre in contatto con realtà diverse e gli piace, perché è una persona molto sensibile: coglie le situazioni, capisce le persone. Non è impermeabile a quello che accade intorno: è un uomo colto e ricettivo». Sarebbe bello pubblicare una foto privata di voi tre, insieme. «Non se ne parla. Il privato è privato». Allora useremo una di quelle ufficiali, quelle in cui ha quei bellissimi cappellini. «I cappellini... che ricattatrice». Prima di salutarci Beatrice vuole farmi vedere un video: «Perché se lo racconto soltanto nessuno ci crede». Si vede Stefano sdraiato nel lettino e si sente la voce di lei che dice: «Ma-m-ma, tu vuoi dire: Ma-mma». E lui a un certo punto lo dice: «Maamaa». Niente di strano se non fosse che il bambino ha 2 mesi. «Saranno solo, come dice mio marito, connessioni neurologiche, ma devono essere buonissime, no?». TEMPO DI LETTURA PREVISTO: 10 MINUTI