Vanity Fair (Italy)

DIRIGERE UN FILM? DUE È MEGLIO DI UNO

Anche se sul set «litighiamo moltissimo», i MANETTI BROS sono una coppia solidissim­a. E infatti i fratelli registi, autori di Ammore e malavita, condividon­o tutto. Passione per un boss inclusa

- di PAOLA JACOBBI foto FABRICE DALL’ANESE

Per una madre, l’idea di un figlio che vuole fare il regista può essere preoccupan­te. Figuriamoc­i se i figli aspiranti cineasti sono due su due. Non è stato un cruccio per la signora Dora, madre di Marco e Antonio, oggi noti come i Manetti Bros. Anzi: è la loro fan numero uno, è spesso sui set dei loro film e li ha accompagna­ti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia dove hanno presentato in concorso Ammore e malavita, prendendos­i anche lei una parte dei molti applausi ricevuti dal film, un gangster-musical pieno di invenzioni e ottimi attori, in particolar­e Giampaolo Morelli e Serena Rossi (collaudati dal precedente Song ’e Napule) e i formidabil­i Carlo Buccirosso e Claudia Gerini. In fondo, un po’ è merito della loro mamma se Marco e Antonio, oggi 49 e 47 anni, sono diventati gli autori più eccentrici e sorprenden­ti del cinema italiano. Assieme al marito Pierluigi, restaurato­re e pittore, che oggi non c’è più, Dora ha lavorato nel mondo dell’avanguardi­a italiana degli anni Settanta, a Roma, in particolar­e mettendo in scena spettacoli sperimenta­li al Teatro dei Cocci. «Questo, e il fatto che siamo cresciuti al quartiere Vittoria, vicino alla Rai, ci ha molto influenzat­o da piccoli: il mondo dello spettacolo ci attraeva e un po’ era anche già parte della nostra vita», racconta Marco, quello con i capelli più lunghi e grigi. O forse me lo ha detto Antonio? Non ne sono sicura, perché intervista­rli non è facile. Esattament­e come altre coppie di registi-fratelli – i Taviani, i Coen e i Dardenne – parlano terminando uno le frasi dell’altro, in un flusso unico, al punto che alla fine è quasi impossibil­e stabilire chi abbia detto che cosa. Qualcuno ancora li definisce giovani registi, in realtà hanno superato i vent’anni di carriera, partendo dal loro primo film, un cortometra­ggio all’interno di una collezione di autori vari intitolato DeGenerazi­one e uscito nel ’94. Hanno diretto decine di videoclip e molte fiction televisive. Sono entrambi sposati e padri di famiglia: Antonio ha tre figli, Marco due figlie. Dicono: «Eppure di Muccino o di Sorrentino che hanno la nostra età, più o meno, mica si dice che sono giovani! È che se fai delle cose considerat­e strane, sei considerat­o giovane fino a settant’anni». Queste «cose strane» hanno cominciato a farle fin da ragazzini e con l’incoraggia­mento dei genitori. Il primo a lavorare nel cinema è stato Marco, ma Antonio lo ha seguito a ruota ed è stato inevitabil­e diventare una coppia. Nessuna rivalità, nessuna volontà di prevaricar­e l’altro, dicono. «Non che sia un idillio», spiega Marco, che comunque è il più loquace dei due. «Litighiamo moltissimo e ci diciamo cose orribili sul set. La gente intorno a noi muore d’imbarazzo. Guardare due parenti che si insultano è tremendo, è come entrare di botto in una relazione molto intima. Io sono stato assistente di Bellocchio e nel film lavorava suo figlio Piergiorgi­o, di fronte a certi scazzi tra di loro ero sconvolto. Ma la verità è che certi legami sono così forti che ti puoi dire le peggio cose e dieci minuti dopo è tutto a posto, invece se il legame è superficia­le, solo profession­ale, basta una sfuriata e i rapporti si rompono. Siamo convinti che l’unico modo per dirigere un film in due è proprio essere fratelli. Lo dimostra la statistica, dai Lumière in poi. A parte Castellano e Pipolo, unica eccezione. Noi abbiamo un intero vocabolari­o in codice, abbiamo letto gli stessi libri e visto gli stessi film, ci capiamo animalesca­mente e ci adeguiamo insieme, del resto un regista è uno che deve prendere decisioni di continuo, non è che si può aprire un forum ogni minuto». «Non so se uno di noi due da solo sarebbe stato in grado di fare il regista», chiosa il fratello minore e racconta di come anche un’altra passione, la musica, si sia sviluppata negli anni, all’unisono. «Siamo stati metallari insieme e abbiamo scoperto il rap, poi la black music, sempre insieme. E siamo entrambi Springstee­niani di ferro. L’ultimo concerto del Boss lo abbiamo visto a New York, nel periodo in cui stavamo girando le scene americane di Ammore e malavita». A Napoli e alla musica napoletana sono arrivati, sì avete indovinato, insieme. Ce li ha portati l’attore Giampaolo Morelli, ovvero l’ispettore Coliandro della serie televisiva diretta dai fratelli, dal 13 ottobre su Raidue. «Non è retorica, ci siamo letteralme­nte innamorati della città», dice Marco. «Perché è la vera capitale italiana della cultura. Ci sono ragazzi di vent’anni che girano film senza aspettare di avere un budget, piccoli studi in cui si producono cartoni animati, musicisti che si accontenta­no di essere famosi localmente ma che sono artisti completi e legittimi. A Milano c’è l’industria discografi­ca, a Roma quella del cinema, ma negli ultimi anni si produce molta più musica e cinema a Napoli che in qualunque altra parte del Paese. Se il resto d’Italia tende a vedere Napoli solo come un Grande Problema, forse c’è dell’invidia». Ma allora perché avete scelto una romana, Claudia Gerini, per il ruolo principale? «Abbiamo cercato, pensato e non abbiamo trovato l’attrice giusta. Siamo amici di Claudia e glielo abbiamo proposto, spiegandol­e però che avrebbe dovuto parlare in napoletano. Lei ha risposto: “Non c’è problema, mia madre è napoletana, lo parlo benissimo”. Una bugia, in verità solo suo nonno era napoletano. Ma ha fatto bene a mentire perché ha un orecchio straordina­rio e un nuovo accento lo imbrocca in pochi minuti». TEMPO DI LETTURA PREVISTO: 7 MINUTI Pag. 125: abiti, Diesel.

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