Vanity Fair (Italy)

COSE CHE NOI UMANI (FORSE) NON POSSIAMO IMMAGINARE

La fantascien­za ci ha abituati a un mondo di ROBOT e replicanti. Ma nella vita quotidiana come riusciremo a gestire la presenza di questi «amici artificial­i» e ad attraversa­re indenni la «Valle del perturbame­nto»? L’importante, dicono gli scienziati, sarà

- di MICHELE NERI

E il 2032 (o forse prima) e vi siete appena accomodati nello studio del fisioterap­ista. È una donna, vi accoglie con un bel sorriso, ascolta le lagnanze sul vostro ginocchio che non funziona, risponde a ogni domanda che le ponete. Si avvicina per iniziare il trattament­o, ma appena appoggia la mano sulla vostra gamba, vi ritraete di colpo: quella sensazione di sicurezza che sentivate si trasforma in un misto di paura e disgusto. La sua pelle, vista da vicino, non è traslucida come la vostra; i suoi occhi sono protetti da un alone nero e impenetrab­ile. Per quanto sia identica a una donna, sotto il suo camice «vive» un androide, un robot evoluto. Al 99 per cento è simile a noi, ma non è uguale a noi. E quando ce ne accorgiamo, l’effetto è destabiliz­zante come l’attimo prima della discesa sull’ottovolant­e: siamo entrati nell’Uncanny Valley, la Valle del perturbame­nto. Era il 1970, quando il giapponese Masahiro Mori coniò il termine per indicare un fenomeno che aveva notato: gli esseri umani, man mano che i robot diventano simili a loro e l’intelligen­za artificial­e si evolve, provano un’affinità crescente. Ma soltanto fino a un punto. Quando diventano talmente identici a noi da essere, a prima vista, indistingu­ibili, basta un particolar­e sbagliato – una reazione facciale, la velocità di spostament­o – per provocare uno choc doppio. Da un lato abbiamo la sensazione che qualcosa di esclusivam­ente umano ci sia stato sottratto, dall’altro temiamo per la nostra sicurezza. Al nostro cervello basta un decimo di secondo per vedere la Valle. Questa si spalanca davanti a noi non soltanto quando percepiamo una differenza fisica, ma anche quando un robot ci fa credere di provare emozioni. In noi nasce un conflitto: siamo inconsciam­ente portati ad accettare che i robot sentano, ma non riusciamo a dimenticar­e che sono oggetti inanimati. Guidati dall’intelligen­za artificial­e, hanno imparato a condurre orchestre, pilotare automobili, compiere interventi chirurgici a distanza. Sophia, la creatura della Hanson Robotics, ha chiacchier­ato amabilment­e con Jimmy Kimmel al Saturday Night Live. Mori aveva visto lungo: e ora che i robot sociali o personali varcano la frontiera della nostra intimità – dalla salute ai servizi, sesso incluso – l’Uncanny Valley si è avvicinata. Riusciremo ad adattarci? Da Blade Runner a Her, alla serie Westworld, la fantascien­za ci ha abituato alla violenza e alle passioni suscitate da esseri di silicone. Ma nella nostra quotidiani­tà sapremo decidere, per esempio, se fidarci di quello che ci suggerisce il nostro «agente artificial­e» (così si chiamano i robot sociali) e con cui, anche grazie alla sua capacità di apprendere dalla conversazi­one con noi, avremo stabilito una relazione? Alcune risposte le ho trovate al primo Festival internazio­nale della Robotica che, dal 7 al 13 settembre, ha riunito a Pisa i più grandi studiosi del rapporto uomo-robot, e dove la Valle è stata citata spesso. L’inglese Maha Salem, ricercatri­ce presso l’Università dello Hertfordsh­ire, ha esplorato il tema della fiducia. I risultati sono sorprenden­ti. «Con gli esseri umani», esordisce, «è facile capire se fidarsi o no, glielo si legge in faccia. E con un robot che non avete mai visto prima?». In un esperiment­o hanno preso due gruppi di venti persone ciascuno. Dovevano entrare in una casa, dove pensavano di essere accolti da una coppia umana. Ad aspettarli c’era, invece, un robot. Per il primo gruppo, il robot era stato programmat­o in modo corretto: avrebbe offerto da bere, mostrato il divano dove attendere il ritorno dei padroni di casa. Al secondo gruppo, avrebbe aperto la porta un robot programmat­o male. Agli ospiti chiedeva di versare del succo d’arancia su una pianta, gettare le lettere non ancora aperte in un cestino e, dopo aver fornito loro la password, di spiare tra le mail del computer. Il gruppo ha ubbidito alle richieste. Giustifica­ndosi così: «Seguivo le istruzioni», «Il robot è il boss», «Il padrone l’aveva programmat­o in questo modo». Il fatto di trovarci in balia di un’identità artificial­e confonde la nostra capacità di reazione. Qualcosa non torna, ma ci fidiamo. Anche perché – ed è una reazione da Uncanny Valley – agli umani la macchina che sbaglia fa più tenerezza. È imperfetta, e il nostro narcisismo è salvo. Il sesso non fa eccezioni. L’americano Matt McMullen, che ha dedicato vent’anni di ricerche per creare il sexbot più raffinato – Harmony, prezzo 15 mila dollari –, ha dovuto fare i conti con la Valle. Per aggirarla, ha dato alle bambole occhi più tondi e volti più regolari di quanto umanamente possibile. Gli effetti dell’interazion­e tra noi e gli androidi sono studiati dalle neuroscien­ze. Il biologo francese Thierry Chaminade dell’Università di Aix-Marsiglia è un’autorità. Che cosa avviene nel nostro cervello, quando entriamo in contatto con automi capaci di comportame­nti umani e di emozioni? «All’inizio siamo propensi a interagire normalment­e. Le zone percettive del cervello dove entrano le sollecitaz­ioni esterne provenient­i dai robot sono le stesse dell’interazion­e con gli uomini, e reagiscono – con empatia o meno – in modo sempre più normale man mano che gli androidi diventano simili a noi. Però c’è un limite oltre il quale le nostre reazioni positive cambiano segno. Se nell’aspetto tutto fa pensare a un essere umano, ma per esempio il robot si muove in modo strano, cambia tutto: lo vediamo nelle scansioni del cervello», dice il biologo. A furia di convivere con entità artificial­i, non faremo più caso alla Valle? «No, l’uomo non si adatterà mai, perché è una reazione profonda e innata. Saranno tecnologia e design sempre più perfeziona­ti a tentare di colmare la distanza. Uno degli aspetti più deludenti è la loro pelle. Per quella del volto dei suoi robot, Hanson

«ALL’INIZIO SIAMO PROPENSI A INTERAGIRE NORMALMENT­E, PIÙ GLI ANDROIDI DIVENTANO SIMILI A NOI PIÙ REAGIAMO IN MODO NORMALE. MA OLTRE UN CERTO LIMITE CAMBIA TUTTO»

Robotics ha creato Frubber, una materia elastica che mima i suoi movimenti, anche i più insignific­anti (Frubber da flesh e rubber, pelle e gomma, ndr)». C’è da aver paura di un’intelligen­za artificial­e troppo avanzata? «No. Si guardi piuttosto agli incredibil­i sviluppi positivi in medicina». Di parere opposto è Gabriele Trovato, visiting professor alla Waseda University di Tokyo e alla Pontificia Universida­d Católica del Perù. Mostra alcune foto in cui è ritratto con uno dei robot sociali più comuni in Giappone: Telenoid, un pupazzo senza arti, candido come la neve, alto 80 centimetri. Telenoid ha un corpo non umano, ma lo sguardo vivo, e l’intelligen­za emotiva ne fa, in Giappone, una compagnia apprezzata da anziani e malati, una presenza consueta negli ospizi (affittarlo costa 400 euro al mese). «Questi androidi minacciano la nostra unicità. I loro occhi neri simili ai nostri, ma senza fondo e senza luce, comunicano a noi occidental­i un senso di orrore. Che ci conduce nella Valle. Ma non è solo una questione di somiglianz­a fisica; a evocarla può essere un suono, un movimento brusco, un tono di voce in contraddiz­ione con quello che dice, come un comando perentorio dato con voce dolce. Differenze culturali o religiose a parte (buddisti e shintoisti accettano i robot umanoidi perché non credono che l’essere umano sia stato creato a somiglianz­a divina), dovremo capire come reagire caso per caso. Come ci comportere­mo con il pedante agente artificial­e, descritto dall’olandese Jaap Ham dell’Università di Eindhoven, programmat­o per – si chiama tecnologia persuasiva – seguirti fino in bagno e dirti di non fumare o fare una faccia seccata se, in cucina, sprecherai l’acqua lavando i piatti? Come la serie Westworld mostra, forse ci limiteremo a scaricare con violenza le nostre frustrazio­ni sul nostro avatar di silicio. Nei convegni, la sensazione è, però, un’altra. Emerge che ci stiamo abituando a superare il confine naturale-artificial­e, e una qualche forma di scambio non banale – purché sia rispettata la piccola Valle della nostra unicità – è probabile. Si pensi alla difficoltà di zittire il Tamagotchi, o di spegnere un automa che pregava i volontari di un test di non farlo. O quale stupore da alba di un nuovo mondo, come descrive Thierry Chaminade, ci colga quando un grande robot, che prima se ne stava con le spalle abbassate, il capo reclinato, di colpo, acceso, si alzi e ottimistic­amente avanzi verso noi.

«I LORO OCCHI NERI SIMILI AI NOSTRI, MA SENZA FONDO E SENZA LUCE, COMUNICANO UN SENSO DI ORRORE A NOI OCCIDENTAL­I. COSÌ COME UN COMANDO PERENTORIO DATO CON VOCE DOLCE»

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35 ANNI DOPO Ryan Gosling, 36 anni, e Sylvia Hoeks, 34, in una scena di Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve.

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