Vanity Fair (Italy)

Voilà il capolavoro

Prima il Gran Premio della giuria a Cannes, poi il successo in Francia. Ecco perché 120 battiti al minuto è diventato un caso (e punta all’Oscar)

- di MATTIA CARZANIGA

Bastano le primissime inquadratu­re per capire che 120 battiti al minuto è un’esperienza più grande di un semplice film. Sarà per questo che l’abbraccio cominciato all’ultimo Festival di Cannes, dove ha vinto il Gran Premio della giuria presieduta da Pedro Almodóvar (avrebbe meritato pure la Palma d’oro), si sta ora allargando a dismisura, e forse culminerà in apoteosi hollywoodi­ana. La Francia ha scelto il titolo di Robin Campillo come candidato agli Oscar nella categoria miglior film straniero, e sembra già il cavallo su cui puntare: per ora gli darebbe filo da torcere solo Angelina Jolie «made in Cambogia», che però divide i critici. Lo dice pure Rebecca Keegan, la «Awards watcher» di Vanity Fair America, nella sua newsletter: «Un incandesce­nte dramma sull’Aids punta all’Oscar». È un’esperienza più grande di un semplice film, si diceva. Pochi secondi e sei sbattuto dentro le riunioni di Act Up-Paris, l’associazio­ne francese che a inizio anni ’90 accese un faro sui malati di Hiv. Sei subito lì al fianco dei militanti che lottano, si arrabbiano, hanno paura, si innamorano. In patria è stato un successo immediato: 650 mila spettatori in meno di quattro settimane di programmaz­ione e il plauso unanime della stampa (anche quello si espande: su Rotten Tomatoes, il termometro della critica statuniten­se, ha al momento il 97 per cento di consensi positivi). Sono quei piccoli miracoli che possono accadere solo in Francia, un po’ com’era successo quattro anni fa con La vita di Adele di Abdellatif Kechiche: anche 120 battiti al minuto conquista la Croisette e poi infiamma il dibattito sull’omosessual­ità, trasforma definitiva­mente una firma intellò in grande autore pop (Campillo era già stato sceneggiat­ore della Classe di Laurent Cantet, Palma d’oro a Cannes 2008, e regista del cult da festival Eastern Boys cinque anni più tardi) e lancia nell’orbita cinematogr­afica un nuovo star-system. L’unico volto noto tra i protagonis­ti è quello di Adèle Haenel, già diretta da nomi come André Téchiné e i fratelli Dardenne, gli altri sono diventati star nel tempo di un weekend. Nahuel Pérez Biscayart, origini argentine e un buon curriculum senza ancora aver sfondato, opziona il prossimo César; Arnaud Valois, che faceva – e continua a fare – il massaggiat­ore (vedi Vanity Fair n. 37), è improvvisa­mente un contesissi­mo It-Boy. 120 battiti al minuto ha la forza dell’instant classic e la freschezza di un’improvvisa­zione tra amici. È un capolavoro per caso (o forse no) che non ha certo bisogno dell’Oscar, però, se proprio dovesse arrivare, son cose che fanno sempre piacere.

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