Sforzi da amanuense
Dalle idee per le sue creazioni di moda agli impegni di famiglia, la stilista MAFALDA VON HESSEN ha un metodo tutto suo: prendere appunti su fogli che vengono scritti, corretti, riscritti
Protagonisti del rito di scrittura, con cui mantenere l’autodisciplina, sono carta e penna. Altrettanto presenti, nella vita della stilista Mafalda von Hessen, sono colori e pennelli: un atelier di pittura è lo sfondo delle immagini, che sfilano cliccando alla voce Season 5, del marchio MvH, il prêt-à-porter firmato da Mafalda von Hessen ed Eric Wright, coppia creativa ora a Parigi per la presentazione della collezione, di una storia cominciata insieme tre anni fa. Il tocco di mascolino che attraversa la sensualità di abiti mutanti, da posizionare sul corpo secondo styling personale, non è solo dell’americano Eric Wright, già direttore creativo da Fendi e Trussardi e storico braccio destro di Karl Lagerfeld. La versatilità di MvH accomuna la naturale disinvoltura di entrambi. Giacche d’estetica militare, tasche e dettagli da lavoro contrastano la fluidità di pezzi che scivolano sul corpo, come nel loro immaginario: «Mettiamo un po’ di sregolatezza tra le regole delle vecchie uniformi». Elementi da mischiare con quello che hai nell’armadio, aggiungendo tagli sapienti di Eric e stampe emozionali, uscite dalla matita di Mafalda. Dai pennelli con cui si aggirava nella casa d’infanzia, dopo la scuola: «In Germania del Nord piove molto, io dipingevo». Saltavano fuori da quei pomeriggi bambole stravestite e molti animali, il topo era il preferito: «Una sagoma facile, da interpretare un po’ street style». Quadri incorniciati dalla mamma e regalati ai parenti, compreso quello con cui Mafalda ha anticipato il suo futuro. Da uno zio a Roma c’è il disegno della famiglia in macchina, sulla strada per l’Italia: «Partivamo ogni anno in sei, 16 ore di viaggio, un solo stop. Adoravo quella trasferta, l’Italia era esotica». Dipinto che ha preceduto la realtà del matrimonio con un italiano che l’ha portata a Roma, città in cui tuttora vive e lavora, con atelier a Villa Polissena. Dalla campagna Mafalda ha traslocato colori e pennellate delle stampe, il gusto per sahariane e chic sportivo, soprattutto l’ossessione per la carta. Un giardino di blocchi e penne con cui timona la vita, che nasce dallo stress da scrittura, tipico di una scolara dislessica: «Ricordo i dettati, tutti segnati in rosso sui lati». Odiava la carta, la cercava: «Mi intrufolavo di nascosto nello studio di mia madre per rubare dei fogli. Mi esprimo meglio dipingendo che parlando». E gli appunti? «È una specie di medicina omeopatica: sforzarsi serve». Anche a tenere separate le lingue: «Scrivo mischiando tutto, poi traduco in una sola». Le cose vengono in mente nella routine del bagno, blocco e penna sono lì, nell’armadietto. In camera? «Non funziona. Se mi viene in mente qualcosa sul letto, mi alzo e vado a scrivere su quel foglietto lì». Il grande post-it che poi si trasferisce sull’iPad, con appuntamento dal dentista del figlio e una manica da elaborare, nella lista che Mafalda controlla, pulisce, trasferisce su nuovo foglio, quando torna in disordine riscrive, per circa 10 giorni, poi si butta. Conviene? «Posso controllare cosa ho fatto e cosa no». Di più: «La disciplina batte la pigrizia. L’istinto non basta, solo il metodo porta frutti». Il suo lo deve alla tata tedesca, che la inchiodava nel pomeriggio davanti alle tante lettere dell’alfabeto fatte a cartolina, con cui le ha insegnato a scrivere: «Direi a vivere. Ero molto selvaggia, non sarei andata da nessuna parte, forse». Troppo creativa per crederlo, ma crediamo nel metodo. Come compagno ideale, da perfezionare, sempre: «Quando lavoravo in teatro con Patrick Kinmonth, non avevo fogli. Per non dimenticare riempivo le braccia di appunti».