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IL DOLORE DI PERDERE L’UOMO

- Caro Massimo,

Vengo dal Paese del Sol Levante e vivo in Italia da 25 anni. Mio padre ne avrebbe dovuti compiere 76. Ho un vago ricordo della nostra ultima conversazi­one via Skype. Dieci giorni più tardi, mentre era in cammino verso casa, il suo cuore si è fermato. Il soccorso è riuscito a rianimarlo, ma verso mezzogiorn­o del giorno successivo, in presenza dei miei fratelli e di nostra madre, ha smesso di battere. Io non sono riuscita a ringraziar­lo per avermi sostenuto, assieme a mia madre, nella scelta di vivere in Italia. Papà, non sono perfetta, ma farò del mio meglio. Scusami, ma quando ti penso mi metto a piangere, mentre tu vorresti che io sorridessi. Poi mi dirai come sarò andata quando ci rivedremo. —HARUSA

Per lui sono sempre stata, fin da bambina, «la sua Befi». Un soprannome che anche adesso, che di anni ne ho 31, riesce a emozionarm­i. Perché quell’affettuoso abbreviati­vo di befana racchiude il profondo legame che c’è tra me e il mio papà, fatto di stima, ironia, affetto incondizio­nato. E di una capacità di comprensio­ne che va oltre ogni discorso. Da quando gli esami clinici hanno acceso un forte campanello d’allarme, non riesco a trovare pace. Vorrei essere forte, ma le lacrime mi esplodono sul viso e i brutti pensieri corrono inarrestab­ili. Lui sembra sereno e positivo, ma mi chiedo se non mostri questa maschera al solo scopo di tranquilli­zzare chi lo circonda. Dove trovo la forza per stare accanto al mio papà con fiducia senza il timore che il tempo a disposizio­ne possa finire da un momento all’altro e la vita trasformar­si in un incubo? —BEFI Come si sopravvive a un genitore che muore e come si impara a convivere con la possibilit­à concreta di perderlo? Sono domande che tutti ci siamo fatti o ci faremo, essendo il distacco da chi ci ha dato la vita una condizione naturale della vita stessa. A me è capitato di perdere un genitore a nove anni e l’altro a trentotto, quando ci si crede adulti emancipati e invece si è ancora profondame­nte figli. La prima fu una sofferenza atroce, ma in gran parte inconsapev­ole. Della seconda ho un ricordo più nitido. La mazzata arrivò all’annuncio della malattia. La voce di mio padre al telefono era asettica, come se mi parlasse di un estraneo. Voleva attutirmi il colpo, ma ottenne l’effetto opposto. Sentii il peso di una sentenza inappellab­ile, che però non era stata ancora eseguita. Solo rinviata. Gli anni successivi furono un alternarsi di stati d’animo. Imparai che ci si abitua davvero a tutto. All’inizio è tremendo perché ci si sente sbalzati improvvisa­mente in prima linea. Poi si impara a convivere con la speranza e persino con la paura. Nel mio caso azionai la mia valvola di sicurezza, oliata fin dall’infanzia, che consisteva nel rimuovere la realtà per rifugiarmi con la mente in un altrove. Fu un errore dal quale vi metto in guardia. Bisognereb­be sempre vivere la situazione presente. Accettarla senza cercare di sfuggirle. Dei quattro anni e mezzo in cui mio padre rimase in vita dopo quell’annuncio, rimpiango il tempo passato insieme. Troppo poco, ma soprattutt­o speso male. Avremmo dovuto parlare meno della sua malattia e più di noi. Regolando meglio i conti in sospeso (tutti ne abbiamo con i nostri genitori) e indugiando nei racconti della memoria. Quando sfoglio i vecchi album di famiglia e mi imbatto in una sua foto da giovane, mi accorgo di non sapere quasi nulla di ciò che faceva e provava a quell’età. Vorrei che mi avesse lasciato un libretto di istruzioni per la vita e invece mi è toccato scriverlo da solo, costelland­olo di strafalcio­ni. Ma forse ciò che rimpiango è un passaggio ideale di testimone che nella vita reale non avviene quasi mai. Perché chi ci lascia se ne va all’improvviso, come il padre di Harusa. O perché, è il caso di Befi, l’angoscia per un evento futuro non più così indefinito rischia di prevalere sulla necessità di affrontarl­o. Non perdendo più neanche un minuto a rimpianger­e ciò che non è stato e non potrà più essere, per concentrar­si invece sul tantissimo che rimane: un genitore vivo, lucido e combattivo che per il tempo che gli resta può ancora darci e ricevere tantissimo. È lo spirito con cui dovresti affrontare la situazione, cara Befi. Non pensare a che cosa sarà di te dopo che tuo padre non ci sarà più. Sopravvivr­ai: più o meno bene, come tutti. Ma lo farai meglio se adesso riuscirai a rimanere al suo fianco nel modo giusto, con vigile leggerezza e amore incondizio­nato.

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