IL VALZER TRISTE DI BARCELLONA
Cronaca della tensione referendaria sulle Ramblas, in una Catalogna scissa tra scorte alimentari, rabbia, paura e il sogno di una nuova Costituzione che cambi per sempre il futuro del luogo e forse quello dell’intera Europa
Ultimo giro?», chiedo al mio vicino – Pakistan. Era il quarto che si faceva ieri sera, andando su e giù per la scala storta della nostra vecchia palazzina, un vecchio edicio nel barrio del Poble Sec, a Barcellona. Ci vivo da dieci anni. Nei primi tre giri aveva caricato sulle spalle 16 litri d’acqua, 2 sacchi da 1/2 chilo di lenticchie rosse e ceci e ora toccava a 4 cartoni da 6 litri di latte ciascuno. Farida – Marocco –, le sue due gemelle – Catalunya – e io – Italia – lo guardiamo in silenzio. «Mancano solo otto chili di farina, poi ho nito», mi risponde. Sta facendo provviste, non c’è alcun dubbio. Non è una delle sue solite spese, nonostante vivano in 9 in un appartamento di 50 mq. La tensione era alta nei giorni scorsi ma non mi era mai sembrato di averlo visto fare mosse strane come questa, nemmeno quando abbiamo sentito le esplosioni nel quartiere del Raval che conna con il nostro, due giorni fa. Il mio vicino pakistano è uno di quelli che ha paura e reagisce avendo un piano. La paura forse gli è iniziata a venire dopo gli attentati. Per me sarebbe relativamente facile prendere un aereo e tornarmene in Italia, ma lui? Che alternative avrebbe? Forse è stato in quei giorni che ha iniziato a pianicare il suo futuro. I catalani hanno votato e sembrano decisi. Quello che dicono è che vogliono scrivere una nuova costituzione e iniziare a lavorare per un futuro libero dalla Spagna. Ma le domande sono molte e nessuno è sicuro su come concretamente potranno organizzarsi. Nel frattempo continuano gli scontri e le tensioni. Il nostro è stato un barrio fortunato perché domenica le votazioni si sono svolte senza scontri né tensioni e noi stranieri – siamo più di un milione – non abbiamo davvero avuto ragioni per prendere decisioni drastiche. Le persone si sono messe in la dalle 5 di mattina davanti al seggio, in silenzio, con i documenti in mano. Alle 8, Joan, il proprietario di uno dei bar della piazza dove si a¦accia il seggio elettorale, ha portato ca¦è, latte caldo e brioches per la gente che da ore stava in piedi ad aspettare il turno di voto. Anziani, famiglie, giovani. Una la interminabile. Quando ha iniziato a piovere, sono rimasti fermi e tranquilli. Nessuno ha atato. Hanno aperto gli ombrelli all’unisono per ripararsi dall’acqua, in un gesto composto ma deciso. E poi hanno continuato ad aspettare. Pensavamo che con la pioggia l’a¨uenza sarebbe scesa. La coda invece si è fatta così lunga da girare attorno alla nostra palazzina. Verso le 10 sono arrivate ai cellulari le prime immagini di violenza e le notizie hanno iniziato a farsi sempre più preoccupanti. Mi aveva raggiunto Pedro, infreddolito. «Vuoi dare un’occhiata?», mi ha chiesto, mostrandomi il telefono. Forse è stato in quel momento, quando la Guardia Civil ha rotto il primo vetro della scuola a Sant Julià de Ramis, che il mio vicino pakistano ha deciso di scendere a fare provviste. Continuano ad arrivarmi messaggi dall’Italia via WhatsApp, su Facebook, su Telegram. «Stai attenta, mi raccomando». «Dove sei? Ho visto delle immagini terribili in televisione». Erano anni che sentivamo i catalani rimasticare certe questioni, in particolare a ridosso della festa nazionale catalana dell’11 settembre, ma quella ricorrenza era per noi solo una buona scusa per non andare a lavorare, per assistere alla Sardana – il tipico ballo circolare il cui nome deriva da “Sardegna” – e per festeggiare con gli amici. Le cose sono iniziate a cambiare nel 2012 perché è stato l’anno in cui la festa si è trasformata in una rivendicazione. Se chiedevi ai catalani il perché della loro arrabbiatura, dicevano di non sopportare più i “no” secchi da parte del governo centrale di Madrid alle loro richieste. «Ci sentiamo presi in giro», ti dicevano. E allora se chiedevi «Perché?» iniziavano a raccontarti la loro storia andando indietro nel tempo, tanto indietro da arrivare all’11 settembre del 1714, l’anno della resistenza di Barcellona all’assedio delle truppe franco-spagnole. L’indipendenza dalla Spagna, che no a qualche tempo fa poteva sembrare una questione al limite del folcloristico, si è inne trasformata in una lotta. Nonostante la tensione di questi giorni le persone hanno mantenuto la calma, senza cedere alle provocazioni. Ogni sera alle 22, i vicini catalani escono sui balconi, armati di pentole, coperchi, chiavi e qualsiasi altra cosa possa servire per fare rumore e manifestare il proprio malcontento. I cani iniziano a ululare come quando sentono le sirene delle ambulanze. Accompagnano il gesto al loro motto coniato dopo gli attentati sulle Ramblas: «No tinc por» – «Non ho paura». Nelle piazze dei quartieri, la sera, si organizzano riunioni spontanee convocate sui gruppi di chat per cercare di capire concretamente il da farsi. «Torna a casa», mi scrive a un certo punto qualcuno dall’Italia. Mi fermo a leggere bene quel messaggio: torna a casa. Lo ripeto nella testa un paio di volte, ssandomi le scarpe. Poi mi guardo intorno. La piazza, gli alberi, i vicini, la pizzeria degli amici italiani, la scuola, i bambini, le biciclette. Ma a casa, noi stranieri a Barcellona, non c’eravamo già?