A PIEDI NUDI NEL BOSCO
È da anni in lista per il Nobel per la letteratura, ma non se ne cura: PETER HANDKE preferisce stare al suo «posto»
Non sono nato viaggiatore. Il dolore più grande della mia vita è stato quando mi mandarono in collegio. Non fu tanto abbandonare la mamma, ma la casa, il luogo. Da allora, quel sentimento di “sradicatezza” mi ha sempre accompagnato». Peter Handke, la faccia resa bellissima dai tagli del tempo, parla del suo Canto alla durata nell’omonimo documentario della regista Didi Gnocchi, il secondo che lo vede protagonista nell’ultimo anno (oltre a In the Woods, Might Be Late della tedesca Corinna Belz). Nato a Grien, in Austria, vissuto poi in Germania e negli Stati Uniti, da 27 anni difende il suo «luogo», un’aascinante casa di pietra circondata dalla foresta di Meudon nella piccola Chaville, 13 chilometri fuori Parigi. Drammaturgo, poeta e sceneggiatore – Il cielo sopra Berlino, che ha scritto per Wim Wenders, ha compiuto 30 anni – è il contrario dello scrittore social. Un po’ c’entra la timidezza («chiedo di perderla ogni volta che vado a messa»), un po’ l’innata didenza dell’esule. Scrive a penna o con matite colorate in piccoli quaderni perché, dice, per il computer non ha mai provato «un’attrazione erotica». Considerato un «classico», è da anni nel- la lista dell’Accademia di Svezia anche se ha già chiarito che per lui il Nobel è una «falsa canonizzazione». È l’indole polemica che lo contraddistingue da sempre, da quando, negli anni ’60, criticava ferocemente la poetica «sterile» degli intellettuali di sinistra del Gruppo 47. O quando, nei ’90, si prese del «fascista» per avere incluso il popolo serbo tra le vittime dell’ex Jugoslavia, contro i bombardamenti Nato. Dopo anni di marginalità dalla scena intellettuale, il rinnovato interesse nei suoi confronti dice molto dell’attrazione che un mondo precario avverte per un ritorno a una base fatta di terra, boschi, foreste, sorgenti. Canto alla durata è, anche, il titolo di una delle sue opere più ispirate, un piccolo poema in versi liberi uscito nel 1988 e ripubblicato nel 2016 da Einaudi. Qui il poeta ri§ette sul rapporto tra vita emera e «durata» che, per lui, non si trova nella pietra, ma nel vento: è «il momento in cui ci si mette in ascolto, in cui ci si raccoglie in se stessi». È quello stato di grazia in cui si intuisce un legame con le cose, epifanie che si rivelano solo in precisi luoghi. Nel documentario, Handke decide di condurre la troupe nel proprio: una fonte naturale sepolta nel bosco tra Clamart e Maudon. Si torna poi a casa, ai «soliti gesti quotidiani» come spostare una sedia, ai tavoloni ingombri di carte, pigne, piume di uccello, mozziconi di matita, conchiglie, che paiono il bottino di un ragazzo di ritorno dal bosco. Tutti si ha l’impressione di stare assistendo a un piccolo miracolo. «Questa è l’avventura», conclude Handke, «e io vorrei scoprire in me stesso qualcosa che non sapevo ancora».