JOAQUIN PHOENIX E I VIZI DI GIOVENTÙ
L’attore meno mondano di Hollywood a colloquio con un grande scrittore: risultato? Una conversazione intensa che spazia dai vizi di gioventù: «Ero preda della supericialità» alla riluttanza nei confronti dei social network: «Non ho più l’età». A 42 anni,
Ho 42 anni!», esclama Joaquin Phoenix quando gli chiedo perché non è presente su nessun social media. È un tardo pomeriggio di maggio – qualche settimana prima di vincere il premio come miglior attore a Cannes per il lm di Lynne Ramsay You Were Never Really Here, dove recita la parte di un killer a contratto – ed è seduto vicino a una nestra aperta all’undicesimo piano di un grattacielo che dà sulla piatta distesa di West Hollywood. Ha un iPhone 5 in una mano, i li degli auricolari intorno al collo, un pacchetto di American Spirit in equilibrio precario sul ginocchio, gli occhiali da sole appoggiati in una piega della maglietta bianca. Ha il sico da padre di famiglia e la barba di due giorni che tende al grigio. Phoenix è un attivista, impegnato soprattutto nella difesa dei diritti degli animali (è vegano da quando ha tre anni) e ha sostenuto, tra gli altri, Peta, Croce Rossa e Amnesty International – ma come può saperlo la gente, visto che non ha nulla sui social media (niente Facebook, Instagram, Twitter) che possa ispirare i followers? Tipico di Phoenix; appassionato e al contempo del tutto disinteressato alla realtà, ai fatti tangibili, di cosa fa e di chi è: uno degli attori più intensi della sua generazione, e probabilmente il migliore. La sua reticenza nei confronti di Hollywood e dei media è ormai famosa, e probabilmente deriva da come la stampa aveva gestito la morte per overdose del fratello maggiore River davanti al Viper Room su Sunset Boulevard nel 1993 (era stato Joaquin, che all’epoca aveva 19 anni, a chiamare disperato l’ambulanza). Ma anche dal fatto che fa evidentemente fatica ad accettare quelle che per lui sono le falsità delle interviste ai personaggi famosi. Ne parla proprio adesso: il servizio fotograco che ha dovuto sopportare per questo pezzo, stare qui con me in questo u¢cio, cercare di formulare delle risposte a domande che di fatto non signicano nulla per lui («Tutti mentono nei talk show», aveva detto a Ellen DeGeneres nel 2015 quando stava promuovendo Vizio di forma). Mentre annaspa in cerca di una risposta a una mia domanda sui pericoli di fare pubblicità e sul disagio che prova quando deve vestirsi elegante e posare tra i ¨ash delle macchine fotograche, alla ne ammette, con quella sua voce quasi strozzata, che quella riluttanza potrebbe aver origine da «un’antiquata idea di ribellione mentre a©ondo nella mezza età e tento di aggrapparmi disperatamente a qualcosa». Nelle sue performance è curioso, istintivo e gli piace improvvisare, ed è decisamente un attore da cinema (quando gli era stato proposto di fare teatro in uno spettacolo che sarebbe stato in cartellone almeno sei mesi, la sua reazione era stata: «Cinque mesi? Voi siete fuori di testa!»). Il tempo ha molto più signicato per lui, adesso. Quando gli chiedo se farà mai un lm Marvel risponde: «Qualcosa che richiede sei mesi del mio tempo? Non saprei». Parte del suo disagio nel discutere il suo mestiere di attore sta nel fatto che lavora in un modo intuitivo, viscerale, e ultimamente in grandi produzioni d’autori idiosincratici, tipo quelle capitanate da James Gray e Paul Thomas Anderson. «Tutto istinto», dice, sostenendo di non sapere da dove gli arriva il mestiere. Guarda con sospetto gli attori che «fanno centro» e non sopporta di fare le prove: «Se sapessi come orientarmi, sarei molto più felice e sicuro di me e meno ansioso ogni volta che recito. Ma mi piace non sapermi orientare. Quando si è imbarazzati si recita male. A volte sul set ci metto un paio di settimane prima di capire di essere più o meno sulla via giusta». «I registi migliori con cui ho lavorato si adattano sempre a come si muove l’attore», dice. Per Phoenix, una grande performance è nelle mani del regista – in n dei conti, è nel suo mondo che l’attore deve entrare. «Sul set ho visto casi in cui gli attori fanno una performance grandiosa e quando viene messo insieme il lm non lo senti, non te ne accorgi. Oppure ho fatto cose che pensavo fossero schifezze e invece montate risultavano molto e¢caci». Lo dice con un misto di sincerità e stupore, come se fosse intrappolato tra due verità. «Quando ero più giovane pensavo che l’idea fosse di costruire un personaggio, capire la sua storia, ora mi sembrano cazzate. È il regista che crea la storia». Recita da quando ha otto anni (il suo primo lm importante è stato Parenti, amici e tanti guai, di Ron Howard, del 1989), ma solo con Gus Van Sant – che aveva diretto suo fratello River in Belli e dannati, ed era riuscito a enfatizzare la cruda bellezza adolescente di Joaquin nella commedia dark del 1995 Da morire – era diventato un giovane attore impossibile da ignorare.
IL MUTUO DEVO PAGARLO ANCHE IO, MA NON HO MAI RECITATO PER SOLDI. RISPETTO ALL’INIZIO AVVERTO MENO ANSIA E HO QUALCHE CONSAPEVOLEZZA IN PIÙ
Aveva una fascino diverso dal fratello, che poteva facilmente rappresentare il modello giovanile americano, biondo e puro. La bellezza di Joaquin è più cupa, maliziosa, con quel sorriso da satiro e la cicatrice sopra il labbro superiore che aggiunge un tocco minaccioso – c’era e c’è qualcosa di tenero e inquietante e innitamente vulnerabile in lui. Nel 2000 Il gladiatore lo ha reso una star, e ha continuato a mettere a segno successi come Signs (2002), Quando l’amore brucia l’anima - Walk the Line (2005) e I padroni della notte (2007). Si riuta di rendersi più simpatico o avvicinabile – è dicile pensare a un attore americano del suo calibro che chieda meno aetto e supporto di lui – eppure in Two Lovers di James Gray (2008), in cui recita la parte di un fotografo con tendenze suicide, è tenero e sensibile come molti attori della sua generazione. Il lm del 2010 Joaquin Phoenix - Io sono qui! cassato dalla critica e poco visto dal pubblico, segna la transizione tra i suoi primi lavori e le performance magistrali di cui si è dimostrato capace in seguito: The Master del 2012, Lei e C’era una volta a New York del 2013, e Vizio di forma del 2014. Diretto e scritto con Casey Aeck (che allora era suo genero), Joaquin Phoenix - Io sono qui! è un mockumentary che narra il crollo di Phoenix dall’autunno del 2008 al 2009: un atto anarchico di autodistruzione, in parte scherzo in parte opera d’arte, e anche feroce satira di Hollywood – uno dei pochissimi grandi lm che arontano il tema della celebrità. Il lm segue un personaggio di nome Joaquin Phoenix che dice a tutti di voler lasciare la carriera di attore per diventare una star dell’hip-hop. Il lm presenta il «vero» Joaquin come un megalomane paranoico, un narcisista idiota che fuma maria, sniffa coca, invita prostitute in camera, si perde la cerimonia di insediamento di Obama perché rimane addormentato (a un certo punto, mentre lascia Washington, grida disperato che «Tobey e Leo» sono su un jet privato mentre lui viaggia in un «minivan a noleggio!») e culmina con una sua disastrosa performance di rap a Las Vegas. È una delle sue prove migliori – esilarante, oscena –, che lo spoglia in un atto di folle immolazione, cancellando ogni taccia di protagonista sexy e magnetico: grasso e barbuto con sulla testa un groviglio di dreadlocks opachi, trasandato e delirante, Phoenix è al centro di una trua elaborata, e ha un’aria così impassibile che mentre il lm veniva girato la stampa di intrattenimento ci era cascata ed era nel caos. Divertente ma al contempo tragico, è una narrazione aascinante di esaurimento da fama che sembra al contempo reale e studiatissimo. Per chiunque abbia sorato l’orbita di giovani celebrità sull’asse L.A.-N.Y.-Las Vegas-Miami il lm è fastidiosamente autentico. Il culmine viene raggiunto con la tristemente famosa intervista di David Letterman a «Joaquin», apparentemente lì per promuovere Two Lovers: imbronciato, borbotta masticando gomma senza togliersi gli occhiali da sole, e praticamente non interagisce con Dave – mentre il pubblico ridacchia nervoso – per poi
IERI ERO SOLTANTO UN EDONISTA, VOLEVO SOLO DIVERTIRMI E FACEVO IL CRETINO IN GIRO, OGGI CONTROLLO I MIEI VIZI, PENSO ALLO SPIRITO E HO SMESSO CON L’ERBA
attaccarlo alla ne. L’intervista aveva reso Phoenix più famoso che mai e ne è stata fatta la parodia in tutto il mondo. Quando gli chiedo perché aveva sentito il bisogno di fare Io sono qui!, spiega che era stato un processo «terribilmente umiliante», ma che pensava fosse importante farlo. Mi racconta che era iniziato tutto come uno scherzo, un episodio di dieci minuti sulla falsariga di uno sketch del Saturday Night Live ma poi Aeck aveva spinto Phoenix ad annunciare che si voleva ritirare dal cinema per diventare un reporter televisivo. Phoenix pensava che nessuno ci sarebbe cascato, invece era diventato virale, e il progetto di farci un lm si era concretizzato proprio grazie alla reazione dei media: l’idea era che Phoenix mollasse la carriera e poi cercasse disperatamente di riprenderla, tutto nto, ma recitato in pubblico. Phoenix si rendeva conto che avrebbe potuto essere un insuccesso ma era anche la sintesi perfetta di come gli piace lavorare. «Un’esperienza incredibile: quando non trovi la luce, non colpisci nel segno, non memorizzi le battute», dice. «Mi ha permesso di essere coraggioso nelle mie decisioni, invece di starmene al sicuro». E in e etti per due anni non aveva lavorato, pur avendo ammesso che Io sono qui! era tutto una
nta. Aveva ricevuto delle o erte, ma niente di interessante. Poi era arrivata la parte di Freddie Quell in The Master, il discepolo alcolizzato di Lancaster Dodd, un cult leader alla L. Ron Hubbard impersonato da Philip Seymour Ho man. Molti la considerano come la migliore performance di Phoenix – aveva perso tutti i chili presi per Io sono qui! e sembrava in forma, quasi magro. Una delle scene forse più potenti del lm è quella del «processo», in cui Dodd interroga senza tregua Quell sulla sua infanzia dicile, e la telecamera rimane puntata sul suo viso mentre la sua innocenza si trasforma in furia ossessiva. Ammette di dover pagare il mutuo e di dover lavorare ma aggiunge: «Non ho mai fatto niente per soldi», e quando dai un’occhiata alla sua lmogra a ti rendi conto che probabilmente è vero. Quando gli chiedo perché ha deciso di recitare il ruolo di Gesù in Mary Magdalene, che uscirà il prossimo anno, una rinarrazione della storia del Nuovo Testamento del regista Garth Davis, dice: «Stavo cercando un’esperienza, qualcosa di signi cativo. E poi ero amico di Rooney» (Rooney Mara impersona proprio Maria Maddalena nel lm, e ora i due stanno insieme). Nel lm Gesù è «soltanto un uomo» e recitare la sua parte è stato «puro istinto, tutto di pancia». La vita di Phoenix è molto più semplice di quanto la gente possa immaginare. Vive con Mara a Hollywood Hills (non è mai stato sposato e non ha gli) e di solito va a dormire alle nove di sera e si sveglia alle sei. Quando non sta girando, la sua routine quotidiana include rispondere a un po’ di email, «rilassarsi» con il cane, meditare, andare a lezione di karate, pranzare, leggere sceneggiature, cenare – ma l’anno scorso è stato quasi sempre sul set. Gli piacciono i documentari su Netix (di recente ha guardato il documentario di true crime di dieci ore The Staircase perché gliel’aveva chiesto Mara), ma di rado ora guarda dei lm. Quando gli chiedo se qualche lm l’ha davvero colpito di recente, ci pensa un po’, e poi risponde, sinceramente sorpreso di se stesso: «Oceania! Mi è sembrato molto bello» (più tardi si corregge e dice che era Civiltà perduta, l’ultima fatica di James Gray – Phoenix ha recitato in quattro dei sette lm del regista). Dodici anni fa Phoenix è andato in rehab per alcolismo. «Mi vedevo semplicemente come un edonista. Facevo l’attore a Los Angeles e volevo divertirmi. Ma non mi dedicavo al mondo né a me stesso come avrei voluto. Facevo il cretino, giravo qua e là, cercavo di fregare la gente, bevevo, andavo in quegli stupidi club». Non c’era stato nessun intervento esterno, semplicemente si era fatto ricoverare. «Pensavo che i centri di riabilitazione fossero un posto dove stai a mollo nella Jacuzzi e mangi tanta macedonia. Ma quando sono arrivato e hanno iniziato a parlare dei 12 passi, ho detto: “Ehi, aspettate un attimo, io voglio continuare a fumare marijuana”». Fa una faccia sorpresa, confusa, e poi ammette: «Penso che al centro del programma ci sia un lato spirituale che è molto importante per me, ma… sono un hippie, si sa». Anche se beve ancora quando è in aereo (l’ultima volta è stato un mese fa mentre andava a Londra), ha smesso di fumare marijuana. «Ci sono un sacco di cose che mi piace fare e non voglio svegliarmi intontito. Non è una cosa che combatto, è solo il modo in cui vivo la mia vita adesso. In parte è anche l’età, forse». Spike Jonze, che l’ha diretto in Lei, ha dichiarato che è la persona più modesta che abbia mai conosciuto e quella frase ti torna in mente se passi un po’ di tempo con Phoenix – è sempre alla ricerca delle parole, implacabilmente sincero, quasi come un bambino, con le lunghe risposte che si avvitano su se stesse – e, man mano che la conversazione prosegue, si lascia pian piano scivolare sulla sedia nché è quasi sdraiato, inconsapevole e disinvolto, e ogni tanto fa cadere la cenere della sigaretta che continua ad accendere in un bicchiere di plastica pieno d’acqua. Non nge di avere la risposta a tutto, anzi, e quando gli chiedo del divario politico in America, dice: «Penso di essere come qualsiasi altro idiota che esprime la sua opinione. Mi imbarazza ammetterlo, ma probabilmente non ne so abbastanza per dire qualcosa». È altrettanto autocritico quando gli chiedo se sente degli obblighi nei confronti dei suoi fan. «Quali fan? Ne avrò al massimo tre. Tra cui mia madre». Ma quando gli domando se si è sentito a disagio quando è stato scelto per impersonare Gesù dice soltanto: «No». Poi mi guarda, vagamente perplesso, e aggiunge: «Ho pensato: nalmente qualcuno che mi capisce».