Donne, pallone, lupi e Agnelli
Uno degli eroi del Mundial 1982 («Tra noi reduci ci salutiamo ancora ogni mattina su WhatsApp») compie 60 anni. «Il tempo non mi pesa», giura il Bell’Antonio e stila un bilancio della propria esistenza tra dolori: «All’Heysel di Bruxelles passai momenti a
Più che parlare, Antonio Cabrini sussurra. Si avvicina, tiene basso il mento e bisbiglia. Ha 60 anni (li festeggia l’8 ottobre), qualche chilo in più, qualche capello in meno, due gli, una nuova compagna e la sua storia. Con gli anni è in pace («Il tempo non mi pesa»); con i chili, i gli e la compagna ci «combatte» amabilmente; con la sua storia lavora di sottrazione. Quando gli chiedo il soprannome preferito, snobba quello a bbiatogli da Gianni Brera (“Il Bell’Antonio”) e sceglie quello meno conosciuto: «Io ero il “Cabro”, non il “Bell’Antonio” (protagonista amato dalle donne dell’omonimo lm interpretato da Marcello Mastroianni, ndr). Quel soprannome non mi rappresentava, non lo volevo». Quando gli domando il successo più bello, scarta il Mondiale dell’82 e ricorda tale Trofeo Albertoni del ’71: «Lo vinsi con la Cremonese, squadra in cui ero entrato a 14 anni nonostante una raccomandazione…». «Nonostante»? «Era una spintarella al contrario. Mia madre mi portò al provino col Maggiolone di famiglia. Andò benissimo, ma c’era un problema. Il giorno prima mio padre aveva telefonato al presidente della squadra per chiedergli di rimandarmi indietro». Perché? «Non seguiva il calcio. Voleva che una volta adulto prendessi in mano l’azienda agricola di famiglia alle porte di Cremona». Come nì? «L’allenatore più importante della mia vita, Ivanoe Nolli detto “il Babbo”, il papà, lottò per farmi tornare il giorno dopo». Sei anni più tardi arriva alla Juventus e ce ne rimane per 13, vincendo praticamente tutto. Cosa ricorda di quel periodo? «Lo stile Juve: stabilità mentale, pensiero vincente, rispetto delle gerarchie». Praticamente: i Marines. «Una volta Stefano Tacconi, che stava attraversando un periodo sfortunato in porta, concesse un’intervista a TuttoSport. Si lamentava del suo nuovo preparatore, che era succeduto a Dino Zo¡ (storico portiere della Juventus che dopo il ritiro ha lavorato come preparatore dei portieri bianconeri, ndr). Il giorno dopo, nella consueta riunione bisettimanale a Villar Perosa, Gianni Agnelli gli chiese conto di quelle parole. “Ho visto che si è lamentato, che le manca Zo¡”. E quando Tacconi annuì, l’Avvocato lo inlzò: “Sapesse quanto manca a noi, Zo¡…”». Diabolico. «Il messaggio per tutti era chiaro: “Non lamentatevi mai con qualcun altro che non sia l’interessato o il vostro diretto superiore”». Agnelli era famoso per tempestare di domande i suoi giocatori. «Capiva il calcio come pochi e voleva sapere tutto: la strategia, il clima nello spogliatoio, l’opinione su giocatori promettenti che stava pensando di acquistare. Ma c’era un problema». Quale? «Telefonava quasi sempre alle 6 di mattina. Un paio di volte ha chiamato anche me. “È sveglio?”. “Certamente presidente”, ho mentito mentre cercavo di riacquisire coscienza. Un giorno Platini osò chiedergli di cambiare abitudine: “Mi fanno enorme piacere le sue telefonate, ma può chiamarmi verso le 8?”. L’Avvocato accettò il compromesso».
Cosa le disse quando lasciò la Juve? «Mi chiamò nel suo u cio, mi regalò un orologio e mi strinse la mano. La Juve era così: torinese, sobria». È vero che i dirigenti preferivano vedere i loro giocatori ammogliati? «Pensavano che uno stile di vita senza distrazioni avrebbe aiutato. Un giorno però Boniperti mi disse: “Nella mia vita ho fatto un unico grande errore. Aver fatto sposare un sacco di ragazzi giovani. Adesso sono tutti separati”». Gli ha dato ragione? «Sì. Ho sposato Consuelo, allora 18enne, che avevo 26 anni. Ho sbagliato: ero fuori casa, troppo giovane e con troppe distrazioni. 18 anni dopo è nita». Sarà stato di cile stare con il “Bell’Antonio”, il calciatore più amato dalle italiane. «In realtà ero timido. Non ne ho mai veramente approttato. E non ho mai sgarrato. Sapevo perfettamente quando potevo divertirmi e quando no». Quando poteva, stando ai irt che le sono stati attribuiti, l’ha fatto eccome. Quante donne ha avuto? «Non so». Non sarà certamente ai «livelli» di Antonio Cassano che ha sostenuto di averne avute «6-700». Stiamo sotto i 100? «Guardi, non sono stato a contare». Basta questa risposta… Ha mai ricevuto proposte indecenti? «Mi hanno oerto auto, orologi, aerei che mi sarebbero venuti a prendere per portarmi in capo al mondo. Ma non ho mai accettato. Ricevevo pacchi di lettere, che giravo a mia madre. Era lei che rispondeva. A un certo punto le Poste ci diedero il timbro per fare prima. A casa ho ancora otto sacchi pieni di lettere inevase. Un giorno vorrei rispondere a tutte». Scene di delirio particolari? «Una volta a Milano Marittima, si avvicina una ragazzina. Mi dice, seria: “Io sono qui per te. Se mi dici di no salgo su quel palazzo e mi lancio giù”. Ho chiesto aiuto ai miei amici e abbiamo cercato di calmarla». Per un periodo si è parlato di una sua presunta omosessualità. Ride. «Sì, e facevo coppia con Paolo Rossi… Ma anche grazie a quell’incidente vincemmo il Mondiale». Come andò? «In Spagna io e lui eravamo in stanza assieme. La notte veniva prima Tardelli, chiamato Schizzo per la sua insonnia. Poi bussava Bearzot. Entrava incazzato per urlarci di dormire, restava sveglio con noi a parlare della partita del giorno dopo… Un giorno un giornalista chiede a me e Paolo chi sia il più bello tra noi due. Lui risponde: “Be’, è Antonio. Lui è la muchacha, io faccio il maschio”». Apriti cielo. «La stampa internazionale riporta quella battuta prendendola sul serio. Quella italiana inizia a ricamarci attorno. È l’episodio che ci convince a proclamare il silenzio stampa. Il Mondiale nì benissimo. Ma per anni mi sono sentito urlare “frocio” dai tifosi avversari». Le è mai pesato? «Mai, ho sempre dato la stessa risposta: “Portami tua sorella”». Cinque anni fa è stato tra i pochi a non condividere l’appello a fare coming out rivolto da Cesare Prandelli ai calciatori omosessuali. «Resto della stessa idea. Il calcio non è il mondo ideale per dichiararsi. Ci vorrà almeno un decennio perché l’omosessualità sia accettata anche nel mondo delle tifoserie. Guardi come insultano un giocatore di colore, immagini cosa direbbero a uno gay». Si è mai stancato di parlare di quel Mondiale? Le avranno chiesto di tutto, negli ultimi 35 anni. «In realtà mi fanno sempre la stessa domanda». Quella sul rigore sbagliato in nale contro la Germania. «Per 15 minuti andai in trance. Nell’intervallo Bearzot mi disse: “Non capisci. Adesso questa partita non possiamo più perderla”. I compagni continuavano a rassicurarmi: “Non è successo niente”». Su quell’episodio lei ci ha scritto un libro: Non aver paura di tirare un calcio di rigore. «Oggi tengo sessioni di mental coaching con le aziende. Parlo del valore della paura, nel campo come nella vita».
Continuiamo con le parole di quella canzone di De Gregori: La leva calcistica della classe ’68. «Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore». Ecco, «un giocatore lo vedi dal coraggio…» «E qui, modestamente, metterei il mio. Ho avuto il coraggio di giocare in condizioni siche pietose, consapevole che avrei potuto rovinarmi. Tutto, per la Juventus». «Dall’altruismo». «Quello di Gaetano Scirea. Un punto di riferimento per tutta la squadra». «E dalla fantasia» «Quella di Michael Laudrup, che veniva omaggiato da Platini come “il più forte”. E che forse aveva tutto tranne che il carattere, forte». Ne ha mai visti, di giocatori tristi «innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai»? «Sì. Uno su due, della mia generazione, ha divorziato. Una volta lasciato il campo si sono impoveriti, e non solo economicamente». Lei ha trovato una nuova compagna, Marta. Che coppia siete? «Gli amici ci chiamano Sandra e Raimondo. Discutiamo continuamente. Ma io sono più pacato rispetto a 40 anni fa. Non ho più voglia di litigare». Dopo essersi ritirato nel ’91, lei ha iniziato la carriera di allenatore. Ha appena concluso l’esperienza di cinque anni come ct della Nazionale femminile. Che dierenze ha trovato rispetto al calcio maschile? «Poche, tecniche. Molte, psicologiche. Le donne sono più tenaci ma più cerebrali. Non mollano mai, ma la loro prestazione dipende molto di più dallo stato mentale, e non solo sico, in cui si trovano». Se oggi incontrasse lei ventenne, da allenatore e mental coach, che consiglio si darebbe? «Sii più didente e meno impulsivo. E torna indietro sulle tue decisioni sbagliate, fregandotene dell’orgoglio». Qual è la frase più bella che hanno detto al “Bell’Antonio”? «“Voglio che adesso tu disegni me”, Renato Guttuso. Gli feci un ritratto: una schifezza». E la più brutta? «“Guardate che fuori ci sono un sacco di morti”. All’Heysel, negli spogliatoi, dopo la conquista della Coppa dei Campioni nell’85». La persona più importante della vita? Si gira verso la compagna Marta, che nel frattempo ci ha raggiunti, e ci pensa su. «Non saprei. Bearzot, Trapattoni, Nolli. Sono tutti allenatori che hanno creduto in me». Il gol più bello? «Quello contro l’Argentina ai Mondiali dell’82. Nessuno che mi faccia una domanda su quello». Magari glielo ricordano nella chat su WhatsApp che ha con gli altri azzurri di quel Mondiale. «Non tanto. Sul gruppo, Ragazzi dell’82, ci diamo il buongiorno ogni mattina, ci sfottiamo, condividiamo foto dell’epoca. Manca solo Zo. Lui, non ha ancora imparato a usare WhatsApp». Retti ca. A sera, l’intervistato ha recuperato di nascosto il mio numero, si è chiuso in una stanza della sua casa, mi ha telefonato e ha chiesto una modi ca a una sua risposta: «Quando mi ha domandato chi fosse la persona più importante della mia vita, ho fatto nta di pensarci e ho detto altri nomi. Volevo fare una sorpresa a Marta. Scriva il suo nome per favore». Il “Cabro” ha sussurrato di nuovo, ma questa volta per un altro motivo.