DUE NEL MIRINO
SE NON FOSSE MIA FIGLIA, AVREBBE UNA VITA MOLTO PIÙ FACILE. SE VOLETE LA VERITÀ È QUESTO L’UNICO PROBLEMA CHE HA
Quel giorno la trentacinquenne Ivanka Trump aveva una missione speciale. Avrebbe reso pubblica, al summit G20 di Amburgo, l’impresa da 325 milioni di dollari a cui lavorava da mesi: un fondo della Banca Mondiale destinato a raggiungere il miliardo di dollari e ad aiutare il nanziamento di imprese avviate da donne nei Paesi in via di sviluppo. Mentre il marito, Jared Kushner, prendeva parte a un incontro bilaterale tra il padre, il presidente americano Donald Trump, e il primo ministro britannico Theresa May, lei moderava una tavola rotonda a cui partecipavano il presidente della Banca Mondiale, Jim Yong Kim, e il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde. Sul palco, davanti a un’inlata di bandiere internazionali, Ivanka, con i suoi modi pacati e qualche sorriso sfoderato nel bel mezzo di una frase, ha parlato dell’importanza di dare alle donne la possibilità di conseguire «indipendenza economica e sicurezza nanziaria». L’abito rosa cipria che indossava, con maniche a campana e grandi occhi, sarebbe nito, come praticamente ogni cosa che indossa, sui fashion blog e sul quotidiano britannico Daily Mail che invita i lettori a «seguire il look di Ivanka» (a prezzi decisamente più contenuti). Dopo la tavola rotonda, ha posato per le foto accanto ai leader internazionali e poi ha ascoltato gli elogi del cancelliere tedesco Angela Merkel, del primo ministro canadese Justin Trudeau e del padre. A un certo punto il presidente Trump ha detto, in un raro momento di autocritica, o forse solo di autoindulgenza, che «se non fosse mia glia avrebbe una vita molto più facile: se volete sapere la verità, forse è questo l’unico problema che ha». Due ore più tardi Trump ha cercato di ricompensare Ivanka, la glia preferita, con una piccola gratica. Le ha chiesto di sedersi per un istante al tavolo dell’incontro con il premier inglese May e il presidente cinese Xi Jinping. Non è anomalo per un delegato prendere il posto di un leader mondiale a un evento del genere, avrebbe osservato più tardi Angela Merkel. Ma quando un membro dello sta del G20 ha postato una foto di Ivanka al tavolo dell’incontro, su Twitter si è scatenata una reazione di sdegno per il nepotismo. «È strano», ha osservato Michael McFaul, ambasciatore americano in Russia sotto Barack Obama. «Molto strano». Anche tra alcuni fedelissimi rompere il protocollo è apparso esagerato. «Scusate», ha dichiarato un ex consigliere di Trump. «Non stiamo parlando della famiglia reale, e lei non è la principessa reale» (in realtà proprio «principessa reale» è un modo con cui la chiamano alcuni consiglieri della Casa Bianca, anche se mai davanti a lei). Poco dopo, quello stesso giorno, l’8 luglio scorso, mentre salivano sull’aereo presidenziale per tornare a Washington, Trump e i suoi consiglieri più stretti erano già alle prese con un problema decisamente più serio. Il New York Times stava per pubblicare un articolo su un incontro del giugno del 2016 che Donald Trump Jr., il fratello maggiore di Ivanka, aveva avuto alla Trump Tower con un’avvocata russa legata al Cremlino. Era la prima prova che durante la campagna elettorale uno dei membri della famiglia Trump avesse avuto contatti con dei funzionari del governo di Mosca. Peggio: Jared Kushner aveva preso parte all’incontro. Quello che è successo a bordo dell’Air Force One mi è stato descritto come «frenetico». L’estremo contrasto tra la scena al summit del G20 e il caos e il panico successivi fa capire un aspetto chiave della nuova esistenza di Jared Kushner e Ivanka Trump. È il contrasto tra il mondo in cui vorrebbero dare l’impressione di vivere e quello in cui di fatto vivono. Per raccontarlo, ho parlato con molti consiglieri della Casa Bianca, loro amici personali e collaboratori.
Spiazzata inizialmente dal ritrovarsi a Washington, la coppia ha attraversato una serie di trasformazioni. All’inizio sono rimasti sbalorditi dall’apparente potere dei nuovi incarichi e hanno approcciato Washington come un gigantesco progetto di ricerca, organizzando riunioni e telefonate con esperti delle aree che li interessavano. Era come se tutta la competenza della capitale degli Stati Uniti fosse apparecchiata davanti a loro in un unico gigantesco buet.