Vanity Fair (Italy)

Lipstick revolution

Il rossetto sta vivendo il suo momento di massimo riscatto: simbolo di una generazion­e di donne che non ha paura di esprimere il proprio POTERE seduttivo. Un’icona del femminismo moderno, l’autrice di Girls, ripercorre un’antica storia a tinte scarlatte

- di LENA DUNHAM foto CHARLOTTE WALES

II primi ricordi che ho di mia madre sono ricordi di rossetti rossi: lei che se lo metteva quando il sabato sera uscivamo di casa per andare all’opening di una mostra, quel colore così sfrontato accanto al tailleur pantalone grigio ardesia Yohji Yamamoto; lei che puliva il mobiletto sotto il lavandino dove teneva rossetti e smalti; e la volta in cui ha lasciato che lo usassi per disegnarmi cerchi concentric­i sulla faccia come un’installazi­one di Yayoi Kusama rovinata. Lo stile di mia madre non era dichiarata­mente femminile. Faceva parte di quel gruppo di donne (Cindy Sherman, Sarah Charleswor­th e Marilyn Minter, per nominarne qualcuna) la cui presenza emergente in un mondo dominato dai maschi come era quello dell’arte alla „ne degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta era come l’avanzata di

una marea. A quel tempo essere una donna non era uno spazio facile da occupare: richiedeva forza, precisione e coraggio. Forse è per questo che, crescendo, ricordo parecchi abiti da uomo: camicie bianche inamidate, pantaloni J.Crew color cachi, desert boot, spalline. Ma c’era sempre il rossetto rosso, a ricordare a chi di dovere che la loro femminilit­à era una risorsa e non un peso. Più o meno 40 anni dopo, ci ritroviamo a farci quelle stesse domande sui nostri diritti che pensavamo non avremmo mai più messo in discussion­e. La cosa ha spronato una nuova generazion­e di donne, donne che non si sarebbero mai dette politicizz­ate, a intraprend­ere un dialogo su ciò che vogliono, ciò che meritano e ciò che bisogna fare per ottenerlo. Qual è la notizia eccitante? Che questa seconda ondata di donne sente che accettare l’invito all’azione negando la propria femminilit­à (si vedano le foto di magliette troppo grandi, pantaloni di velluto a coste e ciglia senza mascara alle manifestaz­ioni degli anni Settanta) è stata sostituita da un’idea, onnicompre­nsiva e aperta a ogni possibilit­à, di cosa debba signi‹care essere una donna, riappropri­andosi del make-up come un puro godimento che concede un momento di gioia privata. Anche alla più pubblica delle attiviste. La rivoluzion­e porterà il rossetto rosso. Lo abbiamo visto sulle passerelle per questo autunno 2017, da Topshop a Prada, da Jason Wu a Preen: labbra di tutte le sfumature di vermiglio, dal ho-appena-succhiato-un-leccalecca al vampiro assassino. Mentre il mondo barcollava inseguendo il circo surreale della stagione elettorale americana, era di¤cile non accorgersi del legame tra la palette completa Pantone di carmini e scarlatti e la sensazione che molte donne insoddisfa­tte stessero chiedendo tutte insieme di più. Maria Cornejo, da tempo ammirata per le sue collezioni di abiti da donna decisi e creativi, ha collaborat­o con il make-up artist Dick Page per mandare le sue modelle in s‹lata con la pelle struccata e un rossetto caldo e lucido color mattone. Era sia complement­are ai suoi abiti di velluto cioccolato e cremisi, sia una dichiarazi­one di intenti. «Se metti solo il rossetto rosso, di solito non hai bisogno di molto altro, ed è una cosa che ti fa sembrare sicura di te», dice la stilista cilena. «Puoi essere una femminista anche se porti il rossetto e sembri carina». Oggi le femministe possono mostrarsi in tutte le forme, taglie e sfumature, e non ci sono prerequisi­ti nell’abbigliame­nto per diventare una di loro. O almeno questo sembra essere il messaggio che arriva da voci come quella di Sarah Sophie Flicker: è raro vedere la performer, attivista e organizzat­rice a capo della Women’s March senza la curva disegnata dal suo rossetto rosso, un classico che lei e le sue colleghe militanti, Tabitha St. Bernard e Janaye Ingram, portavano come pittura da guerra a Washington, mentre aiutavano milioni di donne a battersi e a galvanizza­rsi. «Ma c’è spazio per chiunque voglia farsi avanti», spiega Flicker, «labbra rosse, veli islamici, capelli lunghi, capelli rasati a zero, abiti appariscen­ti e vestiti minimali». Binari e con‹ni che un tempo venivano edi‹cati soprattutt­o per «controllar­e, contenere e umiliare le donne», a detta dell’attivista trans Janet Mock, che porta il rossetto rosso per ampli‹care quello che dice durante i suoi interventi pubblici. Culturalme­nte, un broncio ciliegia ben delineato ha sempre mandato un messaggio preciso: seduttrice, femme fatale, amante diabolica certa di lasciare il segno. Ma non ci sono solo le Marilyn Monroe seduttrici di uomini come la gente è convinta che sia. Symone Sanders, giornalist­a della CNN, si considera un elemento essenziale per mettere in risalto la diversità. «Non mi sembra ci siano molte ragazze nere calve sulla scena politica, almeno tra quelle che gli americani possono vedere quotidiana­mente. Quindi, voglio rappresent­are le ragazze dalla pelle marrone, di tutte le sfumature di marrone», che non si fanno problemi nel mostrarsi in video con un lipstick rosso sangue che non pretende di passare inosservat­o. Ed è lì il suo fascino. Sanders fa presto a rendere omaggio alla consiglier­a di Hillary Clinton, Huma Abedin – «Ha sempre delle labbra incredibil­i» – che (per quanto ne sa il governo) non è mai stata vista senza rossetto. «Ogni momento è buono per portare il rossetto», dice Abedin. «Il rosso mi dà sempre una sensazione di sicurezza, freschezza, coraggio e semplicità», spiegando che anche se non ha mai imparato a truccarsi «come si deve», una passata veloce le permette di esplorare l’amore per il colore rendendola più sicura di sé, cosa necessaria per il lavoro che fa. «Il rosso sta bene con tutto, e ogni volta che lo indosso mi sento a posto». Chiedo a mia madre come sia iniziata la sua devozione alle labbra rosse, e ci viene in mente mia nonna, la cui corporatur­a minuscola nascondeva la ferrea forza di volontà di una donna che ha tirato su tre ragazze ebree all’ombra dell’Olocausto, profondame­nte consapevol­e dell’azione radicale del puro esistere anche mentre cercava di scomparire in un sobborgo di periferia. «Mia madre non sarebbe mai uscita di casa senza», dice parlando di quello che per lei è diventato al tempo stesso un cosmetico per mettersi in risalto, un modo per camuŠarsi, un progetto artistico, un’opera fotogra‹ca, un’armatura, un invito, un cartello con su scritto «non disturbare». Ho ancora un altro ricordo riguardo al rossetto di mia madre: una sua foto appesa nel nostro loft di Downtown di una bambolina in vestaglia che spingeva un rossetto grande quanto lei dentro una casa ideale degli anni Cinquanta. Quel tubetto perfetto, luminoso e arrabbiato, mi possedeva. «Con il senno del poi, credo che quello che cercavo di dire era che la mia femminilit­à era grande quanto me. Avevo la sensazione che storicamen­te le donne avessero bisogno di imitare gli uomini o di rinunciare alla propria femminilit­à per essere delle “vere” artiste. La cosa non mi convinceva». E non convince neanche me.

C’È UN’IDEA APERTA DI COSA DEBBA SIGNIFICAR­E ESSERE DONNA RIAPPROPRI­ANDOSI DEL MAKE UP COME PURO GODIMENTO — Peter Philips, direttore creativo e dell’immagine del make-up Dior

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