PRONTI ALLA FESTA
rischio di estinzione, che la caccia va regolamentata o che forse va persino abolita, anzi senza il «forse». Una battaglia praticamente impossibile, una compressione dolorosa, un sentirsi «fuori» dalla propria comunità. Eppure il parco esiste ancora, e ancora esistono i cacciatori. Nel panorama di un macello provvisorio, sull’acciottolato dinanzi casa mia, rivive in me tutto quel disagio, quella compressione. Nella rievocazione quasi palpabile, tanto è vivida, di un rito primordiale: un cinghiale appena ammazzato, circondato da quattro cacciatori, appeso per le zampe posteriori, in procinto di essere scuoiato con la testa mozzata a terra. Un’azione brutale e violenta fatta con la luce del tramonto, in un tardo autunno ancora tiepido. L’idea della caccia in sé, da ragazzo, mi faceva ribollire il sangue, perché per me quel cinghiale era solo e semplicemente una vittima, esattamente come il maiale che la mia famiglia allevava e che piangeva ferendomi nell’anima quando andavamo a prenderlo per ammazzarlo, sempre su quello stesso acciottolato, lui invece in un’alba sempre gelida di dicembre. Sì, piangeva il maiale al quale avevo portato il cibo per un anno, con il quale avevo parlato. Piangeva con lacrime vere agli occhi guardandomi fisso, almeno così mi pareva. Forse non tutti sanno che i maiali hanno gli occhi azzurri, qualche volta rossi. E il ricordo di quelle lacrime amare si mescola alla sensazione di sentire di nuovo l’odore ferruginoso del sangue che sgocciola, che viene raccolto fumante e diventa condimento di polenta, il resto scorre tra le pietre e il ghiaccio e finisce in rivoli in mezzo ai prati congelati. Piano piano l’«ammazzata» del maiale la digerii, persino imparai a condividerla e festeggiarla, la polenta col sangue riuscii però a mangiarla solo da adulto e oggi, nonostante i miei ripetuti tentativi vegetariani, resta forse il mio piatto preferito, anche se nessuno ammazza più il maiale e io me ne devo persino fare una ragione. ra che effetto mi fanno questi ricordi così vividi? Un po’ mi commuovono, nella memoria selettiva mi appare persino poetica la scena del maiale sgozzato, pur nella sua inaccettabile brutalità, come quella del cinghiale decapitato. È forse la nostalgia di un passato quasi primitivo e atemporale, o qualcosa di più inconfessabile? E adesso, ammansita la rabbia giovanile, la frustrazione, ho imparato forse a gestire la mia virulenza ambientalista? No, credo sempre di più che dobbiamo curare la natura, ho solo forse capito che anche noi (gli esseri umani) ne facciamo parte, non siamo degli invasori del pianeta Terra anche se ci comportiamo autolesionisticamente come se lo fossimo. E questa cosa è più chiara in provincia e in campagna, che in città, dove cemento, asfalto, riscaldamenti e refrigeratori tendono ad annullare il passare delle stagioni. Il rapporto col sangue e con la violenza è un mistero brutale che probabilmente anche io nascondo dentro di me, da qualche parte, che mi fa chiedere se noi maschi riusciremo mai a emanciparci da questa tragica istintualità. Dice forse questo il mio ricordo violento, o dice anche questo, cozzando con il politically correct acquisito negli anni degli studi e delle frequentazioni cittadine e borghesi, cioè quella attitudine a rimuovere il conflitto, a rifuggirlo, a occultare con parole infiocchettate persino il dominio di esseri umani su altri esseri umani, rendendolo incorporeo… così, la notte ormai irrimediabilmente insonne mi induce a una riflessione su cosa sia l’Italia extraurbana, o provinciale, dove abitino davvero le coscienze di quelli che vivono fuori dalle immense metropoli, quanto abbiano consapevolezza della propria appartenenza al mondo contemporaneo… tra deliri e immagini rammemorate.
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