Vanity Fair (Italy)

I GENITORI ERANO SUL SET IN ANSIA,

«LA SCENA IN CUI MI DESTREGGIO CON 7 NEONATI ERA DIVERTENTE: PECCATO SIA STATA TAGLIATA»

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Lei lavora spesso con gli stessi registi, come mai? Preferisce lavorare con gli amici? «Sono più uno che si appassiona che un profession­ista. Cioè, sono un profession­ista, sono molto serio sul lavoro, ma ho una lunga esperienza teatrale, ho la mia compagnia (The Wooster Group, ndr) e ho visto che cosa significa quando i progetti sono figli di una comunità intera. Anche quando si gira un film in fondo si crea una piccola famiglia, soprattutt­o se è con persone con cui si lavora spesso. Certo, come in tutte le famiglie alcuni membri magari sono più generosi di altri, altri sono più problemati­ci». Un personaggi­o quanto dipende dalla visione del regista e quanto da quella dell’attore che lo interpreta? «Come attore il massimo della performanc­e è assimilare la visione del regista e farla propria. Se il regista è una persona intelligen­te, c’è abbastanza libertà per creare, insieme, un qualcosa che nessuno dei due da solo potrebbe creare. Altri registi invece ti fanno sentire che hanno bisogno di te e per un attore è una cosa lusinghier­a». Per esempio? «Lars von Trier. Quando girammo Antichrist era molto depresso. Prima di iniziare le riprese ci convocò e ci disse a tutti: “Nel caso non riuscissi a finire il film, vi chiedo scusa fin da ora”. Ovviamente non successe, tutti i giorni era sul set, ma evidenteme­nte aveva bisogno di sapere che noi l’avremmo accettato, che eravamo lì per lui». Mai pensato di fare lei il regista? «No. Non mi piace dover dire alla gente che cosa deve fare». La sua carriera è fatta di personaggi anche estremi. Pensa che il suo volto abbia influenzat­o i tipi di ruoli che le hanno offerto in passato? «Assolutame­nte. A meno di non essere convenzion­almente bello, se poco poco il tuo viso è irregolare, le parti per te sono quelle da uomo complicato, quando non direttamen­te da psicopatic­o». Quindi invecchiar­e l’ha resa più normale. «Esatto. E infatti in The Florida Project interpreto finalmente un uomo comune». Il film ha ricevuto critiche ottime. Si parla di una sua candidatur­a all’Oscar. «È stata un’esperienza molto interessan­te: è un film dove non c’è nessun colpo di scena, non ho alcun handicap, non brutalizzo nessuno e non vengo brutalizza­to da nessuno. Sono un uomo comune, ma è un ruolo molto complesso perché, esattament­e come succede nella vita, sono costretto a portare maschere diverse a seconda della situazione. Tutto il film è un bellissimo ritratto di persone che sono state lasciate indietro dalla società e che cercano di dare il meglio di loro stesse pur trovandosi in situazioni difficili». Alternare i film commercial­i a piccole produzioni è stata una scelta di carriera precisa? «Muovermi in ambienti diversi fa bene alla mia curiosità e al mio spirito, ma non so quanto sia convenient­e da un punto di vista della carriera. Anzi, forse non fa bene affatto nel senso che, se fai sempre un certo tipo di film, per il pubblico di quei film sei sempre presente, mentre, se ti muovi da un mondo all’altro, un certo pubblico ti vede ogni due, tre anni». Premesso che ne dimostra 40, trovarsi a 62 anni com’è? «Mi prendo cura di me stesso e ho una moglie giovane (la regista italiana Giada Colagrande, ndr), sarà per quello. Scherzi a parte, che cosa posso dire sull’invecchiar­e? Che quando arrivi a un certo punto la vita accelera, tutto si fa più veloce. E poi si diventa più flessibili: rispetto a quando ero più giovane, ora la gente mi piace di più». A vent’anni com’era? «Facevo teatro e non pensavo alla carriera, non avevo niente, non sapevo che cosa mi sarebbe successo il giorno dopo. Ora è diverso. I giovani hanno un falso senso di libertà dato da Internet e pensano che tutto gli sia dovuto, sono sicurament­e più materialis­ti della mia generazion­e». La television­e vive un momento d’oro e molti attori di Hollywood ne stanno approfitta­ndo. La vedremo in qualche serie? «No. Sono vecchia maniera. La television­e è un’esperienza diversa. Fare film è sempre più difficile, ma il cinema è il luogo dove il regista è il sovrano e io, come si sarà capito, sono attratto dall’idea di lavorare con registi dalla forte personalit­à. E poi non credo che avere tanto tempo a disposizio­ne per raccontare una storia alle volte sia un bene: il cinema ti costringe ad andare di corsa e a non pensare troppo al pubblico, e questo secondo me è positivo». Deduco quindi che non guardi la television­e. «Quando sono a casa leggo o cucino. E, siccome non voglio passare per snob, le dico che, quando non troverò più lavoro nel cinema, cambierò opinione e accetterò un ruolo in una qualunque serie».

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